II di pasqua Giovanni 20,19-31
La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi nelle mani e nei piedi del crocifisso, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Leonard Cohen cantava: c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce. Le mani ferite del Risorto sono le feritoie, le crepe da cui entra la luce.
Omelia di p. Ermes Ronchi
I discepoli erano chiusi in casa per paura. È un momento di disorientamento totale: l’amico più caro, il maestro che era sempre con loro, con cui avevano condiviso tre anni di vita, quello che camminava davanti al gruppo, per cui avevano abbandonato tutto, non c’è più. L’uomo che sapeva di cielo, che aveva spalancato per loro orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Ogni speranza finita, tutto calpestato (M. Marcolini). E in più la paura di essere riconosciuti e di fare la sua stessa fine.
Ma quegli uomini e quelle donne fanno la cosa giusta: ed è quella di stare insieme, di non separarsi, fare comunità. Forse sarebbero stati più sicuri a disperdersi fra la folla e le carovane dei pellegrini. Invece no, non si sbandano e fanno argine comune allo sgomento comune. Sappiamo due cose sole di loro: la paura e il bisogno di stare insieme.
In questo stringersi l’uno all’altro, per paura e per memoria di Lui, germoglia la prima comunità cristiana.
Quella casa è la madre di tutte le chiese. La sera di Pasqua il Signore entra nella stanza chiusa, dove manca l’aria e si respira paura: Pace a voi. Come il Padre ha mandato me anch’io mando voi. Li manda, così come sono, poca cosa davvero, un gruppetto alla sbando.
Come il Padre me, così io voi. Ma ora c’è in loro “un di più”: Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, inaffidabili, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, che scuote le porte chiuse del cenacolo. Il respiro di Dio. E che cosa produce? A sorpresa, il perdono.
A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati.
Sì, perdonare è un bisogno di Dio, è il suo respiro di Padre; ha più bisogno lui di perdonare che noi di essere perdonati: per essere Padre lui ha la necessità di abbracciare ogni figlio prodigo che torna, ha necessità di parlare con ogni figlio maggiore che non capisce, di partire in cerca di ogni pecora che si perde.
Prima opera che consegna a coloro che hanno Pace e Spirito: voi perdonerete i peccati… e non è detto ai preti, ma a tutti i discepoli e a tutte le discepole che hanno ricevuto lo Spirito e la Pace. Perdonare è possibile a tutti:
perdonare è de-strutturare il male,
de-creare il male in sé e attorno a sé.
Ma che cos’è un peccato? Risposta del vecchio catechismo: Offesa fatta a Dio disubbidendo alla sua legge. Ma non è Dio che offende questo continuo peccare, è noi che offende e umilia (Turoldo). Immaginiamo così Dio? Uno che pur offeso da me, è bravo e non mi fa pesare l’offesa? Che idea meschina di Dio abbiamo coltivato, l’abbiamo ridotto a poca cosa, costretto in miseria, a rovistare nella spazzatura delle vite.
Non riesco più a sentir parlare di peccato come fosse un’offesa a una legge. Il peccato è uno soltanto: è il disamore. Incapacità di amare, volontà di non amare.
Il disamore ferisce il mondo, offende l’uomo, disamore è l’anti-creazione.
L’unico comando che Gesù ci lascia, quello davvero suo è: amatevi. Amatevi altrimenti vi distruggerete tutti, e la ragione sarà sempre del più forte, del più violento, del più armato, del più crudele.
E Dio come perdona il disamore? Come uno smemorato? Fa come se non fosse successo niente? Ma questo a cosa servirebbe? A pareggiare i conti? A ritornare alla casella di partenza? Un estenuante gioco dell’oca?
Dio perdona come un creatore, non come uno smemorato. Non un colpo di spugna sulla lavagna della vita, ma un colpo di vento nelle vele della mia nave. Perdona risuscitando amore. Perdona, togliendo pietre che chiudono, creando aperture.
Cos’è Gesù Cristo? È una struttura di apertura, di aperture continue. Perdona aprendo cose nuove, non cancellando cose vecchie.
Voglio dirvi tutto il mio disagio per tanto linguaggio liturgico lamentoso, teso a chiedere pietà, il perdono delle colpe, mia colpa, mia grandissima colpa, e poi la richiesta di salvare l’anima dalla perdizione. Ma soprattutto, per l’immagine di Dio che questa inflazione di peccato e di richieste di perdono propone: puntiglioso, pericoloso, un ragioniere attento alle piccole cose. Anziché il Dio innamorato, seminatore di bellezza, primavera del cosmo e del cuore.
Gesù nel Vangelo ci ha detto di chiamare Dio Padre, “Abba”, papà, come figli, come amici, tralci della vite, acqua di quella sorgente. Lo chiamo papà, e continuamente gli chiedo pietà. Che amore, che fiducia è quella che ha continuamente bisogno di chiedere pietà al proprio padre? Quale figlio quando torna alla casa dei genitori per prima cosa chiede “perdono, pietà, scusami”, come facciamo noi in chiesa?. No, chiede un abbraccio.
Il perdono di Dio è questo, il dilagare del suo sole sopra le mie ombre; di aperture dentro i miei limiti. Brecce di luce, fessure di cielo, correnti nuove dentro l’immobile stagno dove sono insabbiato. Che aprono la strada a più amore, a più libertà, a più coscienza.
Otto giorni dopo Gesù è ancora lì: l’abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare.
Li aveva inviati per le strade, e li ritrova ancora chiusi in quella stanza. Ma Gesù accompagna con delicatezza infinita la fede piccola dei suoi, con umanità suprema gestisce l’imperfezione delle vite di tutti.
Non ci chiede di essere perfetti, ma di essere autentici;
non di essere immacolati, ma di essere incamminati.
E si rivolge a Tommaso – povero caro Tommaso diventato proverbiale per la sua incredulità – Gesù l’aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, lo aveva fatto rigoroso e coraggioso, il solo che entra e esce da quella casa.
Invece di imporsi, si propone alle sue mani: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.
Gesù rispetta la sua fatica e i suoi dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del vivere. Lui non si scandalizza, si ripropone, non rimprovera si espone con le sue ferite aperte.
Toccami! Il vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato. Che bisogno c’era?
Non le ha toccate, le ha baciate quelle ferite diventate le feritoie della più grande bellezza del mondo. C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce (Cohen)
Tommaso, beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Siamo noi, una beatitudine per me e per te. Grande educatore, Gesù, forma alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, dalle visioni, alla serietà delle scelte.
Che bello se nella Chiesa, come nel cenacolo, riprendessimo a essere educati più all’approfondimento che all’ubbidienza; più alla ricerca che alla docilità! Che energie e quanta maturità!
Ecco una beatitudine che sento finalmente mia, le altre le ho sempre sentite troppo difficili, cose per pochi coraggiosi.
Questa è invece una beatitudine per noi, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede, per chi ricomincia.
Beati voi che credete… Voglio dire grazie a tutti quelli che credono senza necessità di segni, e la loro fede rafforza la mia;
grazie a tutti quelli che si sono messi in piedi, anche se è notte. Anche se hanno mille dubbi, come Tommaso;
grazie a tutti quelli che non si accontentano del sentito dire, ma vogliono una fede che si incida nelle mani di ogni giorno!
Beati! C’è una beatitudine nel credere, una promessa di gioia nella fede: che non significa una vita più facile ma più piena e appassionata, ferita e luminosa, piagata e guaritrice.
Credere fa bene, credetemi (credete a Tommaso, a Giovanni, a Maddalena, a quanti l’hanno incontrato). Credete all’ultima riga del vangelo: tutto questo è stato scritto, perché crediate e, credendo, abbiate in voi la vita (Gv 20,31).
Credere ti fa bene, ti fa più vivo e più felice. Credere è il rischio di essere felici, di avere in noi la vita.
Queste cose sono state scritte perché crediate in Gesù, e perché, credendo, abbiate la vita. Credere ti fa bene, è il modo essere più vivi e più felici, per avere più vita: io credo, e carezzo la vita, perché profuma di Te! (Rumi). L’augurio che lascio a ciascuno: non possiamo toccare Cristo e le sue ferite, ma possiamo toccare la vita. Accarezziamola, sentiremo che profuma di Dio.
Alla Comunione
Quando sulla mia vita scende la sera,
torna, o Signore, a farti vicino
ad augurare pace.
Vieni, Signore dalle mani e dal cuore feriti.
Ti dico le parole di Tommaso:
Mio Signore e mio Dio.
Mio come lo è il cuore,
e, senza, non sarei;
mio come lo è il respiro,
e, senza, non vivrei.
Tu sei energia che sale, dice e ridice e non tace mai.
Si dilata dentro, mette gemme di luce,
mi offre due mani piagate
dove poter riposare e riprendere il fiato del coraggio.
Signore mio e Dio mio,
mio non di possesso ma di appartenenza,
io appartengo a te,
il mio Amato è mio
e io sono per lui.
Amen.
p. Ermes Ronchi