16 Ottobre 2017

FATELI ENTRARE TUTTI, CATTIVI E BUONI

 

XXVIII DOMENICA – Anno A

Mt 22, 1-14

 di p. Ermes Ronchi

Omelia

Una domanda mi fa soffrire: come mai sento più forte in me l’immagine amara del re che dice: legatelo e gettatelo fuori! Anziché l’allegria contagiosa di un Re che prepara per tutti una festa? Perché questa deformazione, come una slogatura della parabola? Lasciamoci evangelizzare di nuovo.

C’è, nella città, una grande festa di nozze: si sposa il figlio del re, l’erede al trono, eppure nessuno sembra interessato; nessuno almeno delle persone importanti, quelli che possiedono terreni, buoi e botteghe.

È la fotografia del fallimento del re. Che però non si arrende al primo rifiuto, e rilancia l’invito. Come mai di nuovo nessuno risponde e la festa promessa finisce nel sangue e nel fuoco? È la storia di Gesù, di Israele, di Gerusalemme…

Succede che gli invitati, persone serie, presi dai loro affari, dalle liturgie laiche e feroci del lavoro e del guadagno, dalle cose “importanti” da fare, non hanno tempo da perdere per le cose ‘secondarie’: le persone, gli incontri, la gioia, la festa, gli affetti!

Schiavi dei loro idoli (denaro, interesse, guadagno) hanno troppo da fare per riuscire anche a vivere bene. L’idolo della quantità ha chiesto in sacrificio la qualità della vita.

Dice il vangelo: non se ne curarono, mancanza di interesse. Non è forse questo il problema dei problemi: l’indifferenza verso un Dio diventato irrilevante?

Come capire invece se nella mia vita Dio è importante? Ci aiuta il Piccolo Principe: La rosa è importante se tu le dai tempo. Dare un po’ di tempo a Dio. E non per un pedaggio imposto, o per dovere.

Ma perché è l’affare migliore che puoi fare, è l’investimento che ti fa guadagnare vita, un capitale di vita.

Ascoltando questa parabola mi prende una fitta al cuore: sono ancora così pochi i cristiani che sentono Dio come un vino che dà gioia. Sono così pochi quelli per i quali credere è una festa. Per i quali credere è acquisire bellezza del vivere, un capitale di forza e di sorrisi.

Allora disse ai suoi servi: andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.

Neanche Dio può stare solo, per questo non si arrende. Per la terza volta i servi ricevono il compito di uscire, chiesa in uscita, a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, uomini e donne di nessuna importanza, basta che abbiano fame di vita, voglia di festa. Oggi dove manderebbe i suoi servi? A Lampedusa? Alle stazioni ferroviarie delle grandi città?

Se i cuori e le case si chiudono, il Signore, che non è mai a corto di sorprese, apre incontri altrove.

L’ordine del re è illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti, razza, moralità. E l’invito potrebbe sembrare casuale, invece esprime la precisa volontà di raggiungere tutti, che nessuno sia escluso.

È bello questo Dio che quando è rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Lui apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano; e dai molti invitati passa a tutti invitati, dalle persone importanti passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni… Scandalo per il fariseo che è in me.

Un invito alla totalità, senza mezze misure, senza bilancino, senza quote da distribuire…

Per noi che misuriamo tutto, e ci arrendiamo alle prime difficoltà: Dio non accetta che ci arrendiamo, con Dio c’è sempre un ‘dopo’.

Per noi che distinguiamo e separiamo i poveri: tu sei buono e ti meriti il mio obolo; tu sei cattivo, a te non do niente. Ma la fame non è buona o cattiva. È fame e basta. E chi è uomo, e basta, abbeverato alle sorgenti infinite di Dio, merita sempre, buono o cattivo, di bere anche al mio piccolo ruscello. Dio non guarda i meriti, ma il bisogno. Meriti non tutti ne abbiamo, ma bisogno sì, e sofferenze.

E questo non perché essere buoni o cattivi si equivalga. Guardate questa nostra chiesa: non è piena di santi, ma di uomini e di donne che dentro di sé sono buoni e cattivi, al tempo stesso; con slanci talvolta e spesso con durezze di cuore. Ma il vangelo mi ha insegnato che Lui non ama gli uomini perfetti, non preferisce le creature immacolate, ma vuole uomini e donne incamminati, magari col fiatone, magari claudicanti, ma in cammino.

È così è il paradiso. Pieno di santi? No, pieno di peccatori perdonati, di gente come noi. Di vite claudicanti.

Il re invita tutti, non perché gli invitati facciano qualcosa per lui, ma perché gli lascino fare delle cose per loro, lo lascino essere Dio!

Il re entrò nella sala e scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: amico, come mai sei entrato senza l’abito nuziale?

Il re nella sala. Noi pensiamo Dio lontano, separato, assiso sul suo trono di giudice, e invece è dentro la sala della vita, in questa sala del mondo, è qui con noi, come uno cui sta a cuore la gioia degli uomini, e se ne prende cura; è qui seduto alla mia destra, nei giorni delle danze e in quelli delle lacrime, insediato al centro dell’esistenza, nel cuore della vita, non ai margini di essa.

E si accorge che un invitato non indossa l’abito delle nozze. Tutti si sono cambiati d’abito, lui no, tutti anche i più poveri, non so come, l’hanno trovato, lui no; lui è come se fosse rimasto ancora fuori dalla sala. È entrato, ma come uno che non crede che ci sia una festa. Come chi non è interessato. E non gli va neppure collaborare con la sua presenza ad accrescere almeno un pochino la gioia della sala. Un contestatore.

L’abito non è il simbolo di un comportamento senza macchia, perché la sala è piena di brave persone e di cattivi soggetti mescolati. Quell’abito è la metafora della fede. L’invitato si è sbagliato su Dio, lo pensava un Dio incapace di far festa.

E invece si fa festa in cielo, ricordiamolo il vangelo, si fa festa per un peccatore pentito, per un figlio che torna, per una pecora perduta e ritrovata, per ogni mendicante d’amore che trova e beve un sorso d’amore. Si è sbagliato sulla fede, non ha capito che credere è una festa.

Vorrei parlargli, vorrei dirgli ciò che il mare dice alle montagne, ciò che il vento dice alle rocce: che una bontà immensa penetra l’universo, che Dio non è quello che lui crede, che è un vino di festa, un banchetto di condivisione in cui ciascuno dà e riceve. Un flauto che suona da oltre. E ci chiama alle sorgenti, non per un dovere, ma per un sempre nuovo stupore.

Credere è una scala di luce, posata sul cuore e che sale verso Dio, un Dio esperto di feste, un Rabbi che ama i banchetti. Un Dio cui piace sconfinare, pascolare nella terra dell’uomo e non nel solito paradiso. Piace anche a lui nutrirsi, con noi, di nutrimenti terrestri, di sentimenti umani. Padre della gioia.

 

Preghiera alla comunione

 

Amico, come hai fatto a essere qui?

Oggi, Signore, non voglio restare muto

come l’invitato della parabola.

Ti dirò: non ho l’abito bello perché sono troppo povero,

perché ne ho tessuto solo qualche scampolo.

Donamelo Tu, Signore!

Vestimi di te, vestimi della tua luce,

Tu che hai ascoltato il ladro crocifisso,

la preghiera del pubblicano,

la cananea straniera e audace:

accoglimi di nuovo nella sala del banchetto,

sono soltanto un uomo delle strade,

uno dei crocicchi che i tuoi servi percorrono.

Buono e cattivo al tempo stesso, scovato solo alla fine,

ma adesso accolgo l’invito, faccio la mia parte,

scelgo di indossare te,

indosso i tuoi occhi, i tuoi gesti,

prendo le tue mani, i tuoi piedi,

prendo te come mio desiderio, come mio sogno, come mio progetto.

E Tu, Signore, riaccoglimi nella sala del banchetto

E donami di respirare festa da te,

Tu, mia forza, mio abito, gioia mia! Amen