12 Aprile 2018

GESÙ VENNE A PORTE CHIUSE (p. Ermes Ronchi)

 

 

II di pasqua Giovanni 20,19-31

 di p. Ermes Ronchi

         La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi nelle mani e nei piedi del crocifisso, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Leonard Cohen cantava: c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce. Le mani ferite del Risorto sono le crepe del suo corpo, le feritoie da cui passa la luce.

 

Omelia

I discepoli erano chiusi in casa per paura. “È un momento di disorientamento totale: l’amico più caro, il maestro che era sempre con loro. L’uomo che sapeva di cielo, che aveva spalancato per loro orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Ogni speranza finita, tutto calpestato” (M. Marcolini). E in più la paura di finire come lui.

La sera di quel giorno, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano, venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!” (Gv 20,19). Porte chiuse, finestre sbarrate, una casa dove manca l’aria, dove si respira paura. Alcuni del gruppo non ce l’hanno fatta a restare chiusi: Maria di Magdala, Tommaso, i due di Emmaus, alcune donne.

Tuttavia la comunità è rimasta unita, hanno scelto di non disperdersi, hanno detto “no” a un’altra fuga, fosse pure per mimetizzarsi al sicuro nell’anonimato della folla, fra le carovane dei pellegrini.

Restano insieme, perché una persona, quando è sola, è portata a dubitare perfino di se stessa; perché da solo, davanti ad una tempesta puoi essere travolto, insieme invece si fa argine, ci si sostiene, si cerca una memoria e una vocazione condivise.

Venne Gesù a porte chiuse: colui che ha attraversato le grandi porte della morte non c’è chiusura che tenga. Lo sa che i suoi fratelli hanno mille paure: la paura del debole, del malato, del perseguitato, del morente. Ma nessuna paura lo ferma.

Venne e stette in mezzo a loro. In mezzo, come collante delle vite, come legame della comunità, cemento del gruppo. In mezzo al gruppo e in mezzo al cuore, come se dicesse: “dove sarete voi, sarò anch’io; il mio cuore è a casa solo accanto al tuo”.

Che bello il nostro Dio! Non accusa, non rimprovera, non abbandona. Si consegna ancora a discepoli che non l’hanno capito, facili alla viltà e alla bugia. In quali povere mani si è messo: maldestre, che si stancano presto, che si sporcano subito. Eppure non si stanca di noi.

È la vendetta di Dio. Dio si ‘vendica’ di tutta la nostra lontananza ritornando in mezzo a noi. E la sera del giovedì si era vendicato – nella stessa casa, nella stessa ‘camera alta’!- prendendo fra le sue mani i piedi dell’uomo, nel gesto dello schiavo e della donna, piedi di gente stanca, nomade, claudicante, che è fuggita, che fuggirà ancora.

“Pace a voi! Io non chiedo, io dono. Non sono venuto a chiedere, sono venuto a portare. Non andartene, non lasciarmi più. Non fuggire”.

Invece di rimproverarli, di rimandarli a casa, al lago, al banco, alle barche, perché non hanno capito, non ce la fanno, inventa qualcosa di inedito per educarli ancora, per aiutarli a capire: “soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo” . Avrebbe potuto lasciarli e ricominciare altrove, con altri. Invece no, ha rilanciato.

La strategia educativa di Gesù è ‘portare su’, più in alto, far respirare aria più pura: «Voi mi abbandonate e io mi metto nelle vostre mani. Voi mi consegnate perché mi uccidano e io vi consegno il mio Spirito». Immensa vulnerabilità, immensa bellezza dell’amore.

Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, la brezza sottile dell’Oreb su Elia profeta, l’uragano che spalancherà quelle porte chiuse: ecco io vi mando! E li manda così come sono, fragili e lenti, ma con dentro il suo Spirito, il vento forte della vita che soffierà su di loro, e gonfierà le vele, e li riempirà di Dio.

Lo Spirito, che è il respiro di Dio, che cosa produce? Una cosa inattesa, il perdono: Voi perdonerete i peccati… e non è detto ai preti, ma a tutti i discepoli e a tutte le discepole, a quelli che hanno ricevuto lo Spirito e la Pace. Solo se in noi è pace daremo pace.

Perdonare è possibile a tutti:

perdonare è de-strutturare il male,

de-creare il male, in sé e attorno a sé.

è strappare dai circoli viziosi,

spezzare le simmetrie dell’odio, il ripetere su altri ciò che hai subito.

 

“ Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse…” (Gv 20,26). Mi conforta pensare che i miei dubbi non fermano il Signore; che se ha trovato chiuso, non se n’è andato, ha continuato il suo assedio, dolcemente implacabile.

Otto giorni dopo è ancora lì, la prima venuta sembra senza effetto. Secoli dopo è ancora qui, davanti alle mie porte chiuse, con la mite potenza di un seme che non si lascia sgomentare dai miei inverni.

Li aveva inviati per le strade, e li ritrova ancora chiusi in quella stanza. Ma Gesù accompagna con delicatezza infinita la fede lenta dei suoi. Non ci chiede di essere perfetti, ma di essere autentici;

non di essere immacolati, ma di essere incamminati.

E si rivolge a Tommaso – povero caro Tommaso diventato proverbiale. Ma è proprio il Maestro che l’aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, lo aveva fatto rigoroso e coraggioso: infatti è il solo che entra e esce da quella casa.

Invece di imporsi, si propone alle sue mani: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.

Gesù rispetta la sua fatica e i suoi dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del vivere. Non vuole umiliarlo, ma lo spinge a vivere… con stupore, si espone con la meraviglia di quelle ferite aperte.

Toccami! Il vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato. Che bisogno c’era?

Non le ha toccate, le ha baciate quelle ferite, diventate le feritoie della più grande bellezza del mondo.

Tommaso, beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Quelli siamo noi, una beatitudine per me e per te. Grande educatore, Gesù, che forma alla libertà, alla serietà delle scelte, a essere liberi dai segni esteriori, da visioni e miracoli.

Che bello se nella Chiesa, come nel cenacolo, fossimo educati più all’approfondimento che all’ubbidienza; più alla ricerca che alla adesione! Quante energie e quanta maturità liberate!

Credere fa bene, (vedi Tommaso, Giovanni, Maddalena, quanti l’hanno incontrato). Io credo all’ultima riga del vangelo: tutto questo è stato scritto, perché crediate e, credendo, abbiate in voi la vita (Gv 20,31). La fede è un cantiere di felicità. Un cantiere di vita. Più umani, più vivi, più felici.

L’augurio che lascio a ciascuno: siamo beati perché non possiamo vedere Cristo o toccare le sue ferite. Possiamo però toccare la vita, tendere la mano verso i viventi: “ecco, io carezzo la vita, perché profuma di Te!” (Rumi).

La vita e i viventi profumano di Dio.

 

 

 

Alla Comunione

 

Quando sulla mia vita scende la sera,

torna, o Signore, a farti vicino

ad augurare pace.

Vieni, Signore dalle mani e dal cuore feriti.

Ti dico le parole di Tommaso:

Mio Signore e mio Dio.

Mio come lo è il cuore,

e, senza, non sarei;

mio come lo è il respiro,

e, senza, non vivrei.

Tu sei energia che sale, dice e ridice e non tace mai.

Si dilata dentro, mette gemme di luce,

mi offre due mani piagate

dove poter riposare e riprendere il fiato del coraggio.

Signore mio e Dio mio,

mio non di possesso ma di appartenenza,

io appartengo a te,

il mio Amato è mio

e io sono per lui.

Amen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ecco una beatitudine che sento finalmente mia, le altre le ho sempre sentite troppo difficili, cose per pochi coraggiosi.

Questa è invece una beatitudine per noi, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede, per chi ricomincia.

Beati voi che credete… Voglio dire grazie a tutti quelli che credono e sperano anche senza vedere, e la loro fede rafforza la mia;

grazie a tutti quelli che si sono messi in piedi, anche se è notte. Anche se hanno mille dubbi, come Tommaso;

grazie a tutti quelli che non si accontentano di una fede per sentito dire sentito dire, cui non basta essere credenti, vogliono essere credibili!

Beati! C’è una beatitudine nel credere, una promessa di gioia nella fede: che non significa una vita più facile, una assicurazione contro gli infortuni della vita, ma un’esistenza piena e appassionata, ferita e luminosa, piagata e guaritrice.

vita per il cuore, che vive d’amore; vita per la mente, che vive di cose vere; vita per lo spirito che vive di libertà.

Credere non vuol dire: credo che Dio c’è, che esiste qualcuno sopra di noi. Permettetemi un esempio molto quotidiano: se dovessi chiedere a uno: tu credi in tua padre o tua madre? Credi in tua moglie? E se quello mi risponde: sì, certo, credo che c’è, che esiste. Ma questo è ovvio, non hai detto niente. Credere vuol dire: quanta fiducia hai, quanto ti fidi di lei o di loro, quanto di loro è entrato in te e quanto ti importano, quanto gli vuoi bene!

Credere in Dio è avere una storia con Dio, come dicono i ragazzi quando parlano di un amore sbocciato. Credere è diventare porosi, permeabili a Dio, assorbire vangelo in te. P. Turoldo mi disse una volta: vai da p. Giovanni Vannucci, vai perché è una spugna di Dio! Intriso di Dio e di vento.

Queste cose sono state scritte perché crediate in Gesù, e perché intrisi, permeabili penetrati di lui abbiate la vita, quella indistruttibile.