23 Maggio 2002

Zigaina e Pasolini

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ZIGAINA E PASOLINI : ALCUNE NOTE SUI RAPPORTI TRA ZIGAINA E PASOLINI


Giuseppe Zigaina vive nel nord-est dell’Italia, a pochi chilometri dal mare Adriatico. A sud il cielo è illuminato dalla luce riflessa di una grande laguna, mentre a settentrione, nelle giornate terse d’inverno, s’intravedono le cime innevate delle Alpi. La Slovenia è appena oltre l’Isonzo, e l’Austria la si può raggiungere in mezz’ora di macchina. E’ in questa terra di confine che Zigaina, nella primavera del 1946 ha incontrato Pier Paolo Pasolini.

Pur essendo nato a Bologna — il 5 marzo 1922 — il giovane poeta viveva in quegli anni a Casarsa della Delizia — il paese natale della madre. I1 toponimo Casarsa potrebbe trarre le sue origini dagli incendi provocati dai Turchi nelle loro invasioni; e infatti è scomponibile in Casa – arsa”, ossia “casa – bruciata”. Casarsa della Delizia dunque — la Delizia è un piccolo fiume che lambisce il paese — dista una trentina di chilometri da Cervignano, il luogo dove Zigaina è nato e vive tuttora in una casa-studio circondata da prati verdissimi.

Pasolini era noto nell’ambiente culturale friulano per la sua straordinaria vivacità intellettuale, come d’altra parte Zigaina — due anni più giovane di lui — che all’epoca si stava già rivelando come uno dei più interessanti pittori italiani.

“La nostra amicizia — racconta Zigaina nella sua biografia — è nata proprio per un indefinibile qualcosa che non ci siamo mai detti, ma che ognuno di noi, per proprio conto, sapeva. Io ero “ontologico”, per lui, diceva Pier Paolo, come lui lo era per me. Al nostro primo incontro — ricordo che era una mostra di pittura, in una primavera che aveva la freschezza dell’origine del mondo — lui mi chiese :”Di dove sei? “e io gli risposi: “Sono nato a Cervignano del Friuli”. E lui di rimando “Pensa, io sono di Casarsa della Delizia”. Non sapevo ancora che l’accostamente di “casa-arsa ” a “delizia” si chiamasse ossimoro, né potevo supporre che quella figura retorica sarebbe diventata il suo emblema di scrittore. Delle sue parole io colsi tuttavia il senso, perché Pasolini lo espresse con il corpo. Lo espresse con gli occhi al cielo e le mani aperte come un santo nell’atto di essere decollato. Non gli posi mai domande sulla sua omosessualità, che era il suo trauma; né lui me ne parlò, perché dava per scontato che lo sapessi. E io d’altra parte non gli parlai del mio — seppure di tutt’altra origine — perché, per la sua evidenza, era perfino inutile parlarne. I nostri silenzi tuttavia erano più di una lunga e reciproca confessione”.

Pasolini, che amava molto dipingere, scriveva in quegli anni d’arte figurativa; era fatale dunque che dedicasse alcune recensioni alle prime mostre di Zigaina. Anzi, nel 1947, egli dedicò alcuni articoli a una importante rassegna dedicata al ritratto dove i due amici si trovavarono insieme ad esporre.

Ben presto, per la loro amicizia, fondata oltre che su una naturale empatia, anche su comuni idealità estetiche e politiche, i due giovani artisti si trovarono a collaborare nella redazione di un libro di poesie e disegni che, con il titolo Dov’è la mia patria, costituiva già il “manifesto” di quella che sarebbe stata, poi, negli anni futuri, una comune linea culturale; sia in relazione alla particolarissima identità friulana, sia per quanto riguardava in prospettiva l’ Europa. Scriveva Pasolini nel 1947: “Ma sì, noi non sappiamo disgiungere l’uno dall’altro i due problemi, quello del decentramento nazionale e quello dell’accentramento supernazionale. E sarà forse ardito ma non ingiustificabile pensare a questo proprio adesso, che, finiti i giri di valzer dell’Italia, cominciano forse i giri di valzer dell’Europa.”

Se teniamo presente che nel dopoguerra la sinistra italiana era contraria al regionalismo — sognando, essa, il mitico stato nazionalpopolare di Gramsci — potremmo dire che già in quel lontano periodo si stava delineando l”‘empirismo eretico”di Pasolini. Da parte sua Zigaina, in contrasto con la corrente migratoria degli artisti verso i centri di Roma e Milano, se non di Parigi, decide di restare nel suo Friuli per portare avanti quella che poi si rivelerà la quasi ossessiva specificità della sua pittura: la “mitizzazione” degli emblemi costitutivi del “suo” territorio: un territorio dell’anima, tra sogno e realtà. Cosi nascono le immagini delle “biciclette” operaie, delle “ceppaie”, delle “farfalle notturne”, dello smisurato sacrario di guerra di Redipuglia (“elenco telefefonico della morte” lo chiamerà Zigaina), dei “paesaggio-anatomia”, fino alle incombenti “nuvole-astronavi” sulla laguna.

Questo rinchiudersi del pittore in un territorio della memoria che poi si spalanca verso orizzonti di sogno, questo iniziale e kafkiano processo riduttivo che poi si rovescia in una realtà altra, Pasolini lo analizza impietosamente in uno scritto degli anni Settanta: “Zigaina, in qualche modo (a chi lo conosca anche di persona) rivela — scrive Pasolini — la doppia vita del suo io interiore e del suo io di comodo. Perché nessuno che dipinge come lui vive come lui, e nessuno che vive come lui dipinge come lui. Zigaina ha esorcizzato la realtà dandole sempre ragione, cedendo, assentendo, sorridendo: ma poiché sarebbe impossibile far questo con tutta la realtà, egli l’ ha prima di tutto ridotta quantitativamente come “teatro fisico” del suo agire: ed ecco il Basso Friuli e la laguna. Ma mentre egli passa la vita in questo luogo, con queste persone, una vita quasi idillica e quasi edonistica, eccolo che dipinge tutto l’orrore di Redipuglia [lo sterminato cimitero della prima guerra mondiale] con una sontuosità cromatica che non cancella la disperazione quasi psicotica (se non altro quella della psicosi che viviamo ogni notte sognando). Non c’è coerenza tra la sua vita e la sua pittura, ma poiché questa coerenza fa parte dell’oggettività, Zigaina la ontologizza e la dà per scontata. Nella bellissima casa di Zigaina sul verde prato di Cervignano, si bevono vini meravigliosi, e si vive un’ospitalità sinceramente, profondamente carezzevole: ma il suo studio è come un piccolo campo di concentramento, con tutte le atrocità vissute da un Io che vi si dibatte, sotto la carezzevole crosta degli olii, la cui superficie esprime la stessa sensibilità ridente e affettuosa che pervade l’intera vita di Zigaina, ma il cui fondo..”

Tutto ciò trova un riscontro e una anticipazione in uno scritto autobiografico del pittore friulano che ricorda l’esatto momento in cui prende la “decisione” di non abbandonare la sua terra. “Per un lungo periodo rimasi nell’incertezza — egli scrive –, giacché a vent’ anni si pensa di avere molto tempo davanti per decidere. Ma un giorno, dopo essere tornato da Roma e facendo a piedi la strada che dalla stazione porta alla mia casa, ebbi una strana illuminazione. Mi vedo ancora come l’angelo del campanile di Grado col piede sospeso e la mano alzata a indicare l’Ostro. Fu in quell’attimo, per ciò che è successo dentro di me, che compresi di essere una creatura già segnata dalla notte e dal vento di Settentrione. “Wer reitet so spät durch Nacht un Wind? ” è un verso che imparai da mia madre a tre anni e che non ho mai più dimenticato. “Chi cavalca così tardi nella notte e nel vento?”. “E’ il padre con il suo bambino “– mi rispondevo. “Es ist del Vater mit seinem Kind. Talvolta piangevo di terrore ricordando quei versi, perché sapevo che ero inseguito da Qualcuno. E avevo pietà per mio padre. Eppure, per quanto unico al mondo come tutto ciò che è divino, il sole mediterraneo, per me, è mille volte più infido.”

Guido, il fratello minore di Pasolini, viene ucciso il 12 febbraio 1944, in uno scontro tra due fazioni opposte di partigiani, quella nazionalista, cui apparteneva lo stesso Guido Pasolini, e quella filocomunista. Il dolore tremendo di quel assassinio si era già quasi assopito all ‘interno della famiglia, anche perché il padre dello scrittore, ufficiale dell’esercito ritornato da un lungo periodo di prigionia in Africa, si stava chiudendo in un mutismo sempre più cupo. Ma appena cinque anni dopo, nell’ottobre del 1949, scoppierà uno scandalo che costringerà Pasolini a trasferirsi a Roma. Dapprima lui con la madre, e più tardi il padre Carlo. L’accusa era infamante :”atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenne”. Così, anche se l’omosessualità di Pasolini troverà nella “dolce vita”romana un ambiente più tollerante di quello rigidamente moralistico del Friuli, quella “fuga” lascerà una traccia profonda nella vita e nell’opera dello scrittore.

Zigaina lo incontra ogni anno in occasione delle sue mostre a Roma. Dove nessuno sa dello scandalo e della conseguente espulsione di Pasolini dal partito comunista (in cui militava già da due anni) “per indegnità morale e politica”.

Il silenzio su quegli avvenimenti da parte di Pier Paolo, un silenzio, che durerà fino alla fine della sua vita, rivelerà la gravità insanabile della ferita, al punto che il trauma subìto lo porterà per tre volte a negare — lui che ha sempre raccontato tutto di sé, fino al sangue — di essere stato iscritto al partito. L’ultima volta lo farà a Parigi, a poco più ventiquattro ore dalla sua morte sulla spiaggia di Ostia.

Nel 1955, dopo aver visto una mostra di Zigaina alla Galleria del Pincio di Roma che gli ricorda le atmosfere della terra friulana, Pasolini, colto da grande commozione, dedica all’amico un lungo poemetto, che poi pubblicherà ne Le ceneri di Gramsci . Ed è soltanto in questa poesia che il giovane scrittore darà testimonianza, sia pure per allusività comprensibili a pochi, della sua immedicabile nostalgia per il “paradiso perduto”.

E il vento, che da Grado o da Trieste
o dai magredi sotto alle Prealpi,
soffia e rapisce dalle meste

voci delle cene, qualche palpito
più puro, o nel brusio delle paludi
qualche più sgomento grido, o qualche

più oscuro senso di freschezza nell’umido
deserto degli arativi, dei canneti,

delle boschine intorno ai resultumi

Sono sapori di quel mondo quieto
e sgomento, ingenuamente perso
in una sola estate. in un solo vecchio

inverno – che in questo mondo diverso
spande infido il vento. Ah quando
un tempo confuso si rifa terso

nella memoria, nel vero vento che sbanda
per qualche istante, che sapore di morte…

Nel 1959 Zigaina rivede Pasolini al funerale del padre, morto con il fegato distrutto dall’alcool. In quell’ occasione il suo amico gli confida che si stà preparando a girare il suo primo film, Accattone.

Sarà — come testimonia Zigaina nei suoi scritti — una svolta decisiva nella vita dello scrittore, anzi, per certi aspetti, il 1960, anno in cui il film viene proiettato con successo alla Biennale del Cinema di Venezia, segnerà lo spartiacque della sua vita-opera, perché la dividerà miticamente in due parti. “Nella prima metà della mia vita — scriverà Pasolini un anno prima di morire — ho piantato la Pianta della Passione […] nella seconda metà la Pianta del Gioco”. Un gioco dove egli “punta tutto per vincere tutto”, un gioco mortale che ha come posta la sua Vita (futura) di poeta nella memoria degli uomini”. “Uno spostamento — egli scrive in Una disperata vitalità, riferendosi con sottile humour al freudiano Verschibung (spostamento) — il termine che lo scienziato viennese userà spesso nel suo Der Witz und seine Bezihung zum Umbewussten — / da cui dipende vita e morte: nei secoli dei secoli”.

Zigaina, intuirà per primo, con la sensibilità che solo può avere un artista visionario come lui, lo sconvolgente Progetto linguistico-esistenziale pasoliniano. In Petrolio, il “romanzo” pubblicato postumo nel 1992 dall’editore Garzanti, Pasolini delinea molto bene il suo Progetto, ma nessuno gli crede, perché si tratta — egli dice — di “una realtà allucinatoria che è pur sempre reale” . “Tutta l’ opera [quella riguardante gli ultimi suoi quindici anni di vita “descritti” in Petrolio ] era ad ogni modo concepita come una vivente coes i stenza di quel Mistero che doveva essere e del suo Progetto. Tanto è vero che le due parole “Mistero e Progetto” erano anche, provvisoriamente, il sottotitolo del romanzo.”.

Pasolini — ci spiega Zigaina in Hostia — quando parla di Mistero si riferisce senza dubbio (e non senza un sottile umorismo) a un “qualcosa” di molto simile al mistero dionisiaco, e poi cristiano, che egli “progetta e mette in scena” con la sua diabolica capacità di regista.

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Verso la metà degli anni Sessanta il poeta-regista incomincia a riflettere, oltre che sul suo progetto di morte come transustanziazione semantica della sua opera, anche, e specificatamente, sulla tecnica per attuarlo, tecnica che si basa sulla fiducia assoluta nell”‘efficacia e realtà del mito”. “Dovrò rendere conto, nella valle di Giosafat, della debolezza della mia coscienza davanti alle attrazioni, che si identificano, della tecnica e del mito?”: è questa domanda che egli pone a se stesso in un saggio di Empirismo eretico . Pasolini dunque deve prendere in considerazione il problema della comprensione che i suoi futuri lettori o spettatori potrebbero avere o meno del suo Progetto e Mistero . E, come si preccupa della “cifrazione” dei suoi testi, così tiene conto della possibilità della loro decifrazione; che, fatalmente, non può essere affidata che al futuro “spettatore”; spettatore che Pasolini definisce così :”Lo spettatore non è colui che non comprende, che si scandalizza, che odia, che ride; lo spettatore è colui che comprende, che simpatizza, che ama che si appassiona. Tale spettatore è altrettanto scandaloso che l’autore: ambedue infrangono l’ordine della conservazione che chiede o il silenzio o il rapporto in un linguaggio comune e medio.” Essendo per lui conservazione “istinto di conservazione sul piano esistenziale”e nello stesso tempo conservazione sul piano culturale, sociale e politico.

Lo spettatore “che simpatizza e che ama”, lo spettatore che dovrà nel futuro “reinserire nel parlabile” il suo messaggio, ossia trasmetterlo agli altri uomini, “non è altro — dice Pasolini — che un altro autore”. Quello tra Autore e Spettatore non può non essere, dunque, in tal senso, “che un drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari”. Un rapporto — dice sempre Pasolini — che “avviene sotto il segno ambiguo degli istinti e sotto il segno religioso (non confessionale) della carità. […] Un atto in realtà indefinibile, perché santo “.

Ecco quindi che lo scrittore — ma tutto ciò può essere detto solo per logiche deduzioni — incomincia a pensare, forse, come possibile futuro decifratore del suo linguaggio gergale, al suo “amico più vero”, Zigaina. I motivi che ci inducono ad affermarlo sono tanti, ma tre sono particolarmente evidenti:

1) Zigaina, nel 1967, spedisce a Pasolini il catalogo della sua mostra alla Galleria Torbandena di Trieste. Nel catalogo, come autopresentazione, c’è un frammento di un racconto in cui lo stesso Zigaina rievoca un incontro con il suo amico avvenuto nel 1946 in un piccolo borgo nei pressi di Casarsa dove la famiglia Pasolini si era rifugiata durante la guerra. In quella occasione Pasolini aveva fatto dono al giovane pittore della poesia in friulano che aveva appena finita di scrivere, e in cui parlava delle “voci dei ragazzi la sera” (Lengas dai frus di sera ), delle viole e dunque allusivamente di sua madre Susanna. Zigaina, nel suo racconto, rievoca le “viole” e parla di lui mentre, nella sua stanza, con il granturco steso sul pavimento ad asciugare, legge la poesia. Pasolini gli risponde con un
“Rjeka” in croato vuol dire fiume. E infatti nel testo si parla di “fiumi di nome Reca”. Ma la “R “maiuscola e i tre puntini (che alludono a un qualcosa che deve ancora avvenire), oltre che l’accostamento dei Reca ai Timavi (il Timavo è un fiume carsico che scorre sotto terra per poi risorgere nei pressi del golfo di Trieste), danno forma a un misterioso messaggio con “funzione fatica”, direbbe Jakobson, giacché Pasolini è come se chiedesse a Zigaina :”Mi ascolti ? mi segui in questo discorso?”

Negli occhi appressivi di tua madre
ricordi il leggendario ceppo che lei ricorda?
O un prato rettangolare?
Sono corsi fiumi di nome Reca, ed ecco qua i Timavi.
Tu non ridi, amigo, con la dentatura scintillante
al sole dei Tallensi. La laguna ha chiuso gli occhi,
e risogna sola i suoi sogni. I vincastri
allineati contro il cielo di Odino (detto anche Cristo).
Tu non ridi: e dai tigli e da altre piante dimenticate
porti le forme di una nuova storia che vivi
seriamente,
come un’ape infelice, col cuore incollato.
Queste forme son morte. La loro vita consiste
in una calma frenesia fàtica che inganna il tempo.
Perché quel giorno dovrà pur tornare.
Quel giorno, dicevo, dovrà pur tornare, o venire.
Riempi il tempo che ce ne separa, senza rimpiangere
i sanguigni vincastri, nell’ombra serale o coi tuoni,
intorno ai rettangoli di grano verde;
non rimpiangi, ma riempi il tempo che ci separa
con calma, ripeto.
Con calma; con la mano che pare non avere nervi!
con la mano che pare non avere nervi!
con la mano che pare non avere nervi!
La mano di una rana sacra; di una lumaca
solidale con la luna, le acque, e la spirale
dei bassorilievi nel tufo; dell’Ibo commestibile;
dell’antico malato di Hiroscima.
[…] Abbiamo navigato, quanto abbiamo navigato,
negli occhi sempre più ciechi di nostra madre.
Beata la pula e maledetto il grano.

2) Nel 1968 Pasolini chiama Zigaina a collaborare al film Teorema in qualità di ” consulente per il colore e le tecniche pittoriche”. In realtà gli fa eseguire tutti i grandi disegni che nel film appaiono come opera “del giovane pittore folgorato dall’Ospite misterioso”. (Mentre nel ’69 è Zigaina che fa scoprire a Pasolini la laguna di Grado dove l’anno successivo girerà alcune scene di Medea . La protagonista è Maria Callas. Che, attraversando ogni giorno la laguna sulla barca di Zigaina per raggiungere il set, gli confiderà il suo amore impossibile per Pasolini. Sarà ancora Zigaina a consigliare al suo amico i cori bulgari per la colonna sonora).

3) L’anno successivo Pasolini è a Bolzano per girare alcune scene del Decameron. Improvvisamente, appena iniziata la novella di Ciappelletto, il regista interrompe la lavorazione del film e chiede a Franco Rossellini, il produttore delegato, di affidare a Zigaina la parte del “Frate Santo”. La troupe resta inattiva per tre giorni. La lavorazione riprenderà solo quando Zigaina, dopo essersi letto il copione, accetta di vestire le vesti del frate. Il fatto è straordinariamente significativo perché Ciappelletto è la controfigura di Pasolini: come lui è omosessuale, raffinato nel vestire, “amante degli scandali”, e per di più, come lui, ha una fama di “intelligente malavitoso”.

Questa la storia. Recatosi al nord per riscuotere del denaro su incarico di alcuni mafiosi napoletani, Ciappelletto viene colpito da malore durante una cena. Mentre è sul letto di morte, i suoi ospiti, i due usurai, discutono tra loro per decidere se seppellire Ciappelletto in terra consacrata o se pure buttarlo nel fossato degli eretici fuori le mura. Il morente se ne accorge e con un estremo atto di bontà vuol “risolvere le cose alla meglio per sé stesso e per i suoi ospiti”. E chiede di essere confessato da un frate santo, “il più sapiente che ci sia”.

Entra in scena Zigaina nelle vesti del frate, appunto, e si appresta a confessare Ciappelletto-Pasolini. Il quale, tra le lacrime, gli confida ambiguamente di avere sull’anima un grande peccato. “Ho sputato in chiesa”, confessa. Al che, il frate stupefatto gli risponde :”Ma, figliolo, noi preti sputiamo in chiesa ogni giorno!”

Convinto di trovarsi difronte a un uomo di assoluta purezza, il confessore lo assolve e lo proclama santo.

Così nel film — come oggi in sostanza nella realtà — Zigaina proclama al mondo che Ciappelletto-Pasolini è esattamente il contrario di quello che si crede.

Ma nel Decameron il Gioco di Pasolini trova modo di esprimersi anche nella novella di Giotto, dove, mettendosi nel ruolo di un allievo del maestro fiorentino, si veste come il “Vulcano” di Velasquez nel dipinto del Museo del Prado: grembiule di cuoio e fascia bianca sulla fronte. Poi nella poesia intitolata Patmos (Patmos è l’isola della Grecia dove san Giovanni ha scritto l’Apocalisse. Apokalypsis =rivelazione) rivela “da letterato schizoide” che un giorno lo si troverà in un olio del Prado. Pasolini aveva visitato il museo madrileno nel 1964 e si era scoperto “tale e quale” nel quadro di Velasquez, e visitato, per di più, da Apollo dio della poesia e della profezia. Quando poi viene a sapere che “La fucina di Vulcano” era stata dipinta dal pittore spagnolo a Roma ”con modelli tratti dalle borgatre romane”, il suo cervello si incedia e concepisce l’idea di immettersi vivente nel mito di Orfeo, il primo poeta assassinato.

In “Coccodrillo” dell’agosto 1969, scrive:”Ho lunghe ali, io, e molta carne. Mi fece Dioniso, Apollo mi disfece, e viceversa.”

Il “coccodrillo”, in gergo giornalistico, è costituito dai dati biografici che si tengono pronti per illustrare una persona famosa che sta per morire. Pasolini infatti annuncia che come Orfeo — il figlio di Apollo che di ritorno dagli inferi non guarda più le donne e si circonda solo di ragazzini — sarà fatto a pezzi da Dioniso e ricostituito in unità da Apollo, dio della poesia. E viceversa, perché, per esprimersi come poeta, si farà uccidere e il dio Dioniso, che presiede al mito di morte rinascita, lo farà risorgere.

All’alba del 2 novembre 1975, giorno dei Morti, il corpo massacrato di Pasolini verrà trovato in un campetto di calcio sulle rive del mare di Ostia. Zigaina, appena avuta la notizia, corre a Roma e organizza i funerali del suo amico. Le orazioni funebri saranno tenute davanti a una grande folla in Campo dei Fiori. La salma verrà trasportata in Friuli nel piccolo cimitero di Casarsa della Delizia, dove, dopo qualche anno, lo raggiungerà la madre. Ora riposano, una accanto all’altra, sotto una pianta di alloro.

Il lavoro euristico di Zigaina su Pasolini è incominciato subito dopo la sua morte. E’ consistito prima di tutto nella raccolta dei suoi disegni, nella loro catalogazione, nel loro studio, e, in certi casi, nel loro restauro. Tutta l’opera pittorica è stata esposta per la prima nel Museo di Roma in Palazzo Braschi e in seguito nei principali musei d’Europa e d’America.

Sennonché l’intento di Zigaina non è stato quello di presentare Pasolini come pittore tout court, ma come lo sperimentatore di quel “grande manierismo che ha le sue radici nella vita vivente” . Zigaina infatti ha messo bene in evidenza che l’espeienza pittorica di Pasolini rappresenta la ricerca da parte dell’autore del procedimento emblematico di tutta la sua opera, ossia di un procedimento, di tipo alchimistico, duplice e simbolico, pragmatico e mistico insieme, tam phisice quam ethice. “Le difficili amalgame”, sono queste che cercava orgogliosamente il poeta friulano. Le amalgame ad esempio tra la calce solubile in acqua e il colore ad olio che l’acqua stessa respinge, oppure tra il meraviglio rosso (del Pontormo) ottenuto con lo schiacciamento di papaveri sulla tela bianca e l’ossigeno che in pochi istanti gli toglie lo splendore e la vita, o, infine — ed è questo il vero traguardo — tra il linguaggio dell’azione (la sua morte) e il linguaggio scritto-verbale audio-visivo.

La frase di Pasolini che ha portato Zigaina a colmare il “senso sospeso” di tutto il suo “infinito lavorio” è stata: “Dovrò rendere conto nella valle di Giosafat delle debolezze della mia coscienza davanti alle attrazioni, che si identificano, della tecnica e del mito?” Pasolini stava pensando proprio alla celebrazione del mito di morte rinascita come tecnica di stilizzazione della totalità dell’opera.

Zigaina ha presentato per la prima volta la sua “teoria” su Pasolini, nel 1984, al Museum of Modern Art della Berkeley University. Il testo è stato successivamente pubblicato con il titolo Total Contamination in Pasolini sulla “Stanford Italian Review”, a cura di Beverly Allen. Nel 1987, presso l’Editore Marsilio di Venezia, è apparso Pasolini e la morte, seguito nel 1989 da Pasolini tra enigma e profezia, e infine, nel 1994, da Pasolini e l ‘ablora.

Nel 1995 i tre saggi, coerentemente concepiti come una trilogia della morte di Pasolini posti a dimostrazione che l”‘abiura dalla trilogia della vita” da parte del poeta-regista era in realtà l’annuncio della sua abiura “dalla vita”, vengono raccolti in Hostia, che emblematicamente (hostia=vittima sacrificale) riassume i saggi precedenti in un unico, compatto nucleo di senso.

Nella lunga prefazione Zigaina dimostra che — come aveva giustamente previsto Pasolini — la vera morte dell’Autore sarebbe stata non “nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compreso”.
Va ricordato ancora che Zigaina, oltre ad aver presentato in tutto il mondo l’opera pittorica e cinematografica di Pasolini, ha curato nel 1992 la regia di Orgia per il Teatro Andaluz di Sevilia.

Numerosissimi sono i suoi articoli e saggi sull’opera dell’amico scomparso: tra cui quelli, dedicati a lui e Maria Callas, apparsi nel libro di racconti Verso la laguna pubblicato nel 1995 dalla Marsilio Editori di Venezia.

Giuseppe Zigaina

Mio padre l’ariete

Marsilio

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“Bisogna rappresentare la vita non come è né come dovrebbe essere, ma come essa ci appare nei sogni”: la citazione da Il gabbiano di Cechov ha sottolineato come basso continuo il mio tempo di lettura dell’ultimo libro di Zigaina. Così come il “piano sequenza” dei suoi dipinti (Ciclista sull’argine – Traghetto serale – Biciclette e steccato – Il viaggiatore notturno – Ceppaia e fiore) potrebbe essere l’equivalente pittorico dei suoi racconti favolosi.
Al “piano sequenza” l’autore dedica un intero capitolo “Il treno” che si può considerare un omaggio filmico a Pier Paolo Pasolini.

Lo scrittore e regista di Casarsa appare da lui inscindibile fin dal lontano saggio “Pasolini e la morte” (Marsilio, 1987), risultato di una straordinaria “soggettiva” che ispirerà Zigaina a rappresentare anche in seguito e quasi ossessivamente in tutti gli angoli o punti di vista possibili la parabola del poeta massacrato a Ostia.
Vagamente ricordando, per averli incrociati da piccola forse nella piazza di San Vito al Tagliamento, come inquietanti gli occhi di Pasolini, mi è sempre stato difficile avvicinarli agli occhi dolci e apprensivi di Giuseppe Zigaina, ricevuti dall’amorevole madre (dentro i miei occhi vedo quelli di mia madre).
Voglio dire che il legame che tuttora intreccia due personalità apparentemente contrastanti è certamente di quelli che la morte caso mai suggella. “Finché io non sarò morto, nessuno può garantire di conoscermi veramente” scriveva Pasolini e Zigaina garantisce.

In pagine di squisita scrittura le lucciole pasoliniane riappaiono evocate dall’artista cervignanese quali “fiammelle pentecostali”: per dire della forza di una fraternità e di un linguaggio.
Già ragazzo in bicicletta per sterminati territori rischiarati dalla luna; esploratore notturno di basiliche; visionario e viaggiatore del mondo, il pittore tra i grandi del novecento può infine dichiarare come niente fosse “Io penso alla mia vita come mi è sempre piaciuto: una linea di vapore bianca, tracciata da un aereo sulla volta del cielo”.
Il segno il sogno la parola: vita di Giuseppe Daniele Zigaina, classe 1924.