19 Gennaio 2003

Friuli, politica senza cultura

dal Messaggero Veneto del 19/01/03
di Paolo Maurensig

IDENTITA’ E FUTURO

FRIULI, POLITICA SENZA CULTURA

di PAOLO MAURENSIG


Parlo non soltanto nella veste di scrittore ma, soprattutto, in quella di presidente del Forum di Aquileia che, come è noto ai più, è un’associazione che raccoglie personalità della letteratura, della musica, del giornalismo, dell’università, delle istituzioni, espressioni, peraltro, di diverse scelte politiche. E proprio intervenendo sul tema della cultura premetto che non a caso qui ora faccio il nome di Aquileia, per una precisa scelta che impegna oggi molti uomini di cultura a riproporre i valori che hanno costruito la sua singolare unicità.

Valori di pluriculturalità, multietnicità, di tolleranza e accoglienza. Noi siamo orgogliosi di avere queste radici e di poterci affermare eredi di così alta tradizione, soprattutto per la consapevolezza che non è solo un’eredità dei friulani, ma che è condivisa anche da popoli che i nazionalismi avevano persino resi nemici e che finalmente oggi possono come noi dirsi europei.

Non sono solo indizi e tanto meno è mitologia. Sono, piuttosto, radici solide e riconoscibili di un comportamento culturale ed etico che i popoli di etnia latina, slava e tedesca raccolti dall’istituzione patriarcale hanno consegnato alla nostra modernità e che noi abbiamo assunto quale attualissima definizione di una nostra nuova soggettività e di una nostra rinnovata identità etica, politica e culturale nella nascente Europa dei popoli. Noi crediamo nel valore forte della particolarità storica e culturale se questa non diventa un elemento da opporre alle altre particolarità. Crediamo che l’unità venga, anzi, accresciuta dalla particolarità quando questa apre al confronto e al reciproco arricchimento.

Per questo riteniamo che la disconoscenza, la volontaria insensibilità di chi ha responsabilità pubbliche verso questo patrimonio spesso favorisca il profondo snaturamento della sostanza culturale ed etica di un intero popolo, consentendo suggestioni improvvisate, banalità intollerabili e manipolazioni. Non è in gioco, quindi, la sola trasmissione di una memoria o di un’identità storica, ma l’investimento nell’attualità di valori ereditati e, quindi, la stessa riconoscibilità di una comunità nell’azione contemporanea e nella progettazione del suo futuro.

La politica deve farsi carico di questo problema anche quando interpreta l’idea di uno sviluppo economico e sociale adatto alla comunità che rappresenta, anche quando progetta le sue strutture e i suoi servizi. Molte volte siamo a chiederci in ragione di che cosa chiediamo autonomia o strumenti differenziati. E il più delle volte ci riduciamo a constatare che ad altro non sappiamo servircene se non per conseguire protezionio vantaggi economici.

La cultura può avere un ruolo fondamentale se sollecita la politica a fare un uso dell’autonomia anche per pensare a un modo nuovo di rispondere ai bisogni e anche ai sogni dell’individuo, un modo nuovo ispirato ai valori che hanno costruito la preziosa unicità storica e culturale del nostro popolo. Che però bisogna conoscere e saper interpretare, perché una delle condizioni per aprirsi al confronto senza perdere la propria identità sta proprio nel conoscere ciò che l’ha composta e, soprattutto, la sua possibilità competitiva. La sfida è quella di affermare i propri valori evitando il rischio opposto e ancor più insidioso degli integrismi e delle intransigenze di principio. Identità – individuale e collettiva – da ridefinire; ma come? Si parla molto di glocalismo, ma il concetto è altrettanto ambiguo e confuso che quello di globalizzazione. Non crediamo che la risposta stia nel localismo.

Purtroppo nel nostro Friuli si respirano troppe ansie di identità e di miti rassicuranti. Pensiamo, poi, all’esasperazione della questione della lingua alla pretesa di normalizzare una lingua fino a ieri tagliata al punto di tradurre-ridurre in koinè persino la poesia. Credo che sia venuto il momento di dire che il friulano non può essere l’unico criterio di friulanità perché questo comporterebbe una scorretta identificazione di lingua e cultura.
Come dicevo prima, sicuramente l’identità deve fare i conti con la globalizzazione.

E il problema, appunto, non è chiudersi in riserve indiane, ma è, piuttosto, saper porre l’identità in una relazione positiva con questo importante fenomeno dai connotati in parte sì vantaggiosi ma in gran misura inquietanti. La globalizzazione, soprattutto per lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, potrebbe presentarsi come un’occasione, un kairòs unico. Ma nel momento in cui mi apro all’altro nella reciprocità identitaria, mi devo porre più che mai in vigilanza critica nei confronti di tutte le minacce che la globalizzazione sicuramente comporta.

La cultura non potrà non farsi carico di capire e vigilare quelle interazioni imposte dalle reti mediatiche e ancor più dai grandi flussi migratori lasciando perdere la ricerca di assai dubbie ascendenze, qual è la celtomania, o praticando la retorica di valori soltanto conclamati e reclamati.
Credo, piuttosto, che convenga sfidarsi riappropriandosi di quei valori distinguibili e originali della nostra identità e che il confronto può recepire come universali e inopponibili.

Ci troviamo pienamente in sintonia con quanto in proposito scrive Gian Paolo Gri nel suo recente (S)confini: che i discorsi sulle identità e sulle appartenenze sono quasi sempre «soltanto metafore di ciò che si desidera»; che il Friuli non è un oggetto storico e culturale già definito e completato, ma esiste solo come oggetto in formazione; che è necessario indagare in maniera spassionata la storia e le forme della cultura tradizionale del Friuli, contro ogni falsificazione e semplificazione; che la lingua friulana è parte di un sistema plurilingue, «in stato di traduzione continua»; che gli uomini sono liberi di sottrarsi alle determinazioni del proprio universo culturale; che si può essere friulani in modi nuovi, in modi futuri; che nel passato del Friuli ognuno ritrova quel che vuole: radici venetiche, celtiche, latine, sabine, barbariche, ebraiche, germaniche, venete, romane, padane, mitteleuropee, ma che dovrebbe essere sentito come titolo di nobiltà il discendere da molti innesti; che le culture si sviluppano non per auto ma per inter-fecondazione; che condizione ineliminabile del nostro stare nella complessità è vivere al plurale.

Per questo, l’attuale abuso della parola identità ci pare la reazione esasperata alla constatazione, a volte anch’essa eccessiva, di un certo nostro provincialismo culturale. A esso si è quasi sempre reagito importando cultura, piuttosto che producendone di aggiornata, di colta, di evolutiva. Un fenomeno che, vista l’evidenza delle cose, ha consentito a molti di inventarsi come mediatori culturali o portatori di competenze intellettuali e di conferire alla nostra passiva ricettività soluzioni più congeniali alle periferie milanesi che a una società come la nostra. Così che continuano, secondo noi ingiustificatamente, ad affluire denari pubblici verso proposte che dietro alle conosciute etichette di avanguardia, sperimentazione, teatro civile, innovazione e quant’altro si voglia, impongono codici elitari e prodotti di squisita autoreferenzialità.

Non nego il valore culturale di alcune proposte, ma è intollerabile leggere, a proposito della scarsissima affluenza di pubblico al Mittelfest, che gli spettacoli erano buoni ma che lo sparuto pubblico non ha capito. Ergo va educato il pubblico! Se la mia casa editrice non vende, non posso limitarmi ad accusare il popolo dei lettori di essere una massa di imbecilli. Devo per lo meno pormi il problema di non essere in linea con la sensibilità culturale dei miei contemporanei.

Sarebbe arrogante pretendere di imporre un nuovo modo di leggere e censurare il lettore qualora non vi aderisse! Tanto più nell’impiego delle risorse pubbliche dove, secondo me, sicuramente vi è il dovere di perseguire la crescita culturale ma ricercando una mediazione rispettosa della sensibilità dei cittadini che, in fondo, restano sempre quelli che pagano.
Ha avuto sicuramente ragione l’onorevole Saro nel porre la questione del Mittelfest, che è diventato il simbolo di un paradosso insostenibile.

Dobbiamo pensare al giorno dell’inaugurazione della prima edizione di Mittelfest: mi pare ci fossero quattro capi di Stato, ministri e rappresentanti della cultura di tutti i paesi della Mitteleuropa. In quel giorno si respirava il clima di un evento senza precedenti per la cultura della nostra Regione. C’era l’affascinante universo della Mitteleuropa che si affacciava a Cividale.
Mettete pure quel giorno a confronto con la serata clou del Mittelfest 2002: il Giovanni da Udine semivuoto dove si rappresentano gli stermini del Ruanda che, devo dedurre, da quella sera e per compiacere una certa critica nazionale, è divenuto un paese del Centro Europa!

Ma non ci sono alibi! Si conoscevano perfettamente i responsabili di quelle scelte e altrettanto bene si era in grado di intuirne lo sviluppo e l’esito. Mittelfest va riconsegnato a personalità rappresentative e in grado di interloquire con l’area culturale che designa quella e quella sola manifestazione. Quanto appartenga questo Mittelfest a questa regione, alle sue radici e ai suo afflati culturali, a questo punto, è diventato per molti versi un mistero.

Esiste una sorta di usurpazione aliena che non vuole intendere che esistono anche altri livelli di lettura della storia, della letteratura e del teatro.
Un sacerdote e scrittore friulano di grande spessore circa il Mittelfest ha detto una cosa che si può estendere anche alla massa di spettacoli teatrali che ci vengono importati: possibile che fra tanti friulani non ci sia uno meno stupido degli altri da poter essere rappresentato?

È una manifestazione che – così com’è – va azzerata e che va riportata al suo progetto originario! Utilizzaro questa occasione per sollecitare il coraggio degli amministratori a decidere senza indugi in questo senso, prima che si raggiunga l’inevitabile punto di non ritorno! Peraltro la poco elegante occupazione politica è palese anche a un non vedente. Niente di personale nei confronti del bravo presidente, ma anche qui lo scarso spessore di chi ha la responsabilità delle scelte è esploso, con tutti i suoi effetti.

Voglio dire, poi, un’altra cosa. In questa regione che conta poco più di un milione di abitanti vi sono più di trenta stagioni teatrali! Ora io mi chiedo: ha senso avere questa costosissima disseminazione sul territorio che, alla fine, con la motivazione di raggiungere anche lo spettatore del paese più lontano, propone quella qualità di prodotto che può, lasciando, oltretutto, lo spettatore stesso nella convinzione di aver praticato e conosciuto il teatro? Trasformiamo i teatri dei capoluoghi in centri di riferimento per tutto il territorio ed eventualmente qualifichiamo ciascuno di essi per profili e raccordandoli con l’Ente regionale teatrale.

Ma la domanda è: cosa si produce di livello qualificato in questa regione e qual è l’impegno di chi governa i circuiti di far girare ed esportare prodotti di qualità e legati alla storia, al sentimento, all’identità e alla cultura locale? Il Teatro stabile regionale può ancora definirsi «regionale» visto che al di là di abituali operazioni personali nulla ha a che fare con il territorio?

Così che tra le allucinanti operazioni di un Fassbinder e un Kubrick tradotti in friulano si infilano le più imbarazzanti produzioni che vanno dallo strafolclore paesano ai colloqui ostetrici per arrivare fino al vuoto perenne di molte sale teatrali dove si giocano le partite dell’innovazione in regime di produzione stabile.
Si era persino pensato a un’assurda identità oligarchica, denominata Fondazione per lo spettacolo, alla quale è stato almeno sottratto il governo del settore teatrale. Noi speriamo che anche quello musicale venga presto ricondotto a forme di amministrazione e a forme di gestione che, usando un eufemismo, siano più normali.

E parlando di musica come non richiamare anche qui qualche nota della grottesca operetta dell’orchestra sinfonica regionale? Si è sfiorata la crisi nella maggioranza regionale perché si è voluto imporre un uomo di tessera. Or bene, ammesso e non concesso che si possa fare una crisi regionale per avere sul podio Von Karajan, io vi assicuro che in questo caso non c’è alcuna parentela, né di sangue né artistica, con il grande direttore salisburghese. L’orchestra finalmente ha cominciato a lavorare meglio. Molte cose sono perfettibili, ma i primi risultati si vedono e… si sentono. Quindi, gli aspiranti Karajan si facciano da parte e lascino lavorare. Così dovrebbe fare qualcuno della politica e in questo ancora ci siamo trovati d’accordo con l’onorevole Saro.

Ma ci sono delle cose che funzionano e funzionano anche bene. Penso, per esempio, a quell’unico grande festival che tutti ci invidiano e che è l’ultraventennale Folkest, organizzato e gestito da gente seria e preparata che – a fronte dello strafinanziato Mittelfest coi suoi circa 200 spettatori a rappresentazione – fa ben 60-70 mila presenze ai propri concerti.
Ci sono poi le stagioni del jazz, che hanno portato a Udine, Gorizia e Cormòns superstelle della musica afroamericana. C’è No borders di Tarvisio con grandissimi nomi che richiamano gente anche da Slovenia, o il Sunsplash di Osoppo, che è diventato il più importante festival reggae europeo e non gode di un euro di contributo pubblico.

Noi crediamo che la politica che aspira a lasciare una traccia riconoscibile debba farsi carico di realizzare, finalmente, una sintesi tra l’apertura alla vera qualità culturale esterna e la valorizzazione delle accertate intelligenze interne. Soprattutto di quelle che hanno ottenuto, più che l’avallo dei critici o degli operatori a tempo pieno della cultura, il riconoscimento della gente. Che non è così stupida come si vuol far credere perché distingue il valore di quello che le viene proposto riempiendo le sale allo stesso modo di quando, al contrario, le lascia vuote.
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Né a destra né a sinistra, ma con l’uomo
Il dibattito: serve una cultura che abbia al proprio centro le persone


Una cultura libera che non sia più appannaggio delle sinistre, ma che non diventi un’esclusiva del centro-destra. Una cultura che si riappropri la centralità dell’uomo e, in senso più ampio, intesa come spazio di incontro per diverse realtà. Ma soprattutto affidata a persone scelte, non con il criterio delle tessere di partito, ma con quello della competenza e della professionalità.
Sono questi alcuni dei pensieri dipanati, ieri, lungo un medesimo filo conduttore: la presentazione, cioè, della proposta di un manifesto per la cultura di Forza Italia.

«Con questa proposta – ha suggerito Marcello Dell’Utri, responsabile nazionale dipartimento cultura – cerchiamo di mettere a fuoco problemi e temi che ci permettano di redigere un manifesto della cultura e, si badi bene, non di una che sia esclusiva del centro-destra, perché non si può parlare di cultura se si ha in testa un pensiero così unilaterale». Per una nuova forma di governo culturale, Dell’Utri ha suggerito, fra le altre cose, di creare un catalogo regionale di persone che hanno i titoli per svolgere i compiti nel settore.

Un incontro che ha unito voci autorevoli – dai presidenti della Regione e della Provincia Renzo Tondo e Marzio Strassoldo, al responsabile regionale del dipartimento cultura, Renato Cristin, ai coordinatori provinciale e regionale di Forza Italia, Ferruccio Saro ed Ettore Romoli, a Sandro Bondi,m responsabile nazionale dipartimenti e portavoce di Forza Itralia, agli scrittori Paolo Maurensig e Carlo Sgorlon – in cui è emerso come essenziale anche un nuovo rapporto con la politica dove la cultura non sia più subalterna a quest’ultima.

«La città dell’uomo e la storia hanno bisogno di pensiero – ha enfatizzato Vincenzo Cappelletti, presidente della Società italiana di storia della scienza –, guai ad abbassarlo a un rapporto utilitario alla politica. Analogamente a quanto ha detto il Papa di non permettere, cioè, che la teologia debba costruirsi sulle rovine della ragione, potremmo dire anche noi di non permettere che la politica debba procedere sulla rovina delle tradizioni, delle istituzioni e delle vocazioni culturali». E, ancora, una cultura in grado di creare uno spazio d’incontro per idee, entusiasmi e talenti in cui si percepisca l’Europa con tutte le sue possibilità.

«La politica economica e finanziaria da sola non può farci diventare una grande famiglia – ha indicato il parlamentare Hubert Pirker –, non ci si innamora di un mercato, ma di una musica sì». Una presentazione, seconda solo a quella di Firenze, inserita in una regione, il Friuli-Venezia Giulia, in cui da sempre tante culture si incontrano. «La battaglia culturale che dobbiamo condurre deve riportare in vigore la centralità dell’uomo – ha relazionato Ferdinando Adornato, presidente della commissione cultura della Camera dei deputati –, farci riappropriare la nostra storia perché, come diceva Leopardi, la modernità consiste nel recuperare il perduto».

Un perduto che secondo Adornato si può ritrovare nelle radici del Rinascimento. Ma fondamentale in questa direzione è il ruolo dell’intellettuale che non deve farsi portavoce di delegittimazione morale né demonizzare l’avversario. Un auspicio, poi, nella direzione del conservatore, nell’accezione di chi custodisce le cose migliori del passato, è venuto da Carlo Sgorlon. «L’uomo di destra è legato alla cultura cristiana, mentre il progressista – ha detto lo scrittore – è antireligioso e a questi sembra non importare che la civiltà italiana, cristiana, liberale, patriottica e multiregionale si perda e sia dissolta; al suo opposto l’ideologia conservatrice sente profondamente ogni lato della civiltà italiana come un patrimonio prezioso da conservare». Una cultura da tutelare attraverso la quale Sgorlon risponde alle domande universali dell’uomo: chi siamo? Dove andiamo? «Sono anche la cultura della mia piccola patria e di quella grande. Io sono friulano, padano, italiano, cittadino del mondo».

Lara Pironio
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