I mondi in cui opera Davide Turoldo sono Milano e Firenze. La
Milano degli anni 1940-55 e la Firenze degli anni 1955-60.
La Milano della guerra, della resistenza e della
prima fase della ricostruzione civile-morale; in Firenze un autentico
“laboratorio” progettuale di democrazia e di rinnovamento ecclesiale.
Le direttrici di fondo che s’imponevano a livello
contenutistico dopo la dittatura e la guerra e la struttura portante le
dinamiche d’una convivenza civile da progettare impegnavano il cittadino e il
credente.
L’impegno per Nomadelfia incarnava concretamente un
modello di società dove la “fraternità” era legge, definendo così gli autentici
contorni di un “umano” che fa della libertà conquistata una premessa operativa
ed efficace della solidarietà: la libertà a servizio della giustizia. Senza
questa dimensione etica la libertà si corrompe distruggendo l’autentica dignità
dell’uomo e della convivenza.
La realtà ecclesiale non può non essere una
“fraternità” dove la stessa giustizia è ottimizzata nel radicale riscatto della
“carità”, dell’amore; dove la stessa autorità è solo e sempre autorevolezza che
nasce e si corrobora nel servizio: il primo è tale se “schiavo” dell’ultimo.
Ovviamente la Chiesa è a servizio dell’uomo, di ogni uomo senza connotati
limitanti.
In questa fase “liberazione e redenzione” sembrano
integrarsi in una continuità di difficili distinzioni.
[1]
Parole, inerti macerie,
brandelli d’esistenze
disamorate, panorama
del mio paese
ove neppure il gesto
sacrificale più rompe
la immota somiglianza dei giorni,
né le vesti sante coprono
la nudità degli istinti.
E i poeti non hanno più canti
non un messaggio di gioia,
nessuno una speranza.
II
E non più alberi sulle nostre
strade disperate. Nessuno
ha pietà almeno
delle pietre, dei giardini,
degli antichi triangoli d’ombra.
Le vie non hanno più linee,
gli archi sono cemento,
le colonne senza capitelli.
E dentro le case,
ognuno è solo
con la sua diffidenza.
[2]
Litania del deportato
Non più un verso ampio e disteso
come il primo volo di falco
sopra la pianura dell’infanzia;
non più un canto fermo
nell’estasi delle sere.
Tutto è franato nell’orgia necessaria.
La coscienza m’ha dato un nome,
spogliato come un albero
dopo la tempesta, dall’incanto
di sentirmi libero.
Gli uomini mi hanno appeso il piastrino
che brilla, nella marcia,
sulla giacca grigia.
Siamo creature incatenate
entro un paese di pietre
e di strade senza cielo!
Siamo sassi della creazione.
Dio, più non chiedermi d’essere
verticale. Ora diverso è l’urto
dei Tuoi venti; non regge
il mio peso insopportabile d’uomo
alla Tua aggressività inesausta.
Così, abbattuto, eviterò lo schianto
che Tu vai preparandomi:
non vale cercare più il rischio
che non abbiamo scelto.
Abbia, dunque, il Tuo volere
compimento pieno – la Tua
creazione violenta! – e passa
sul nostro sudore di sangue;
e l’attrito non abbia più cifra.
Nessuno più rompa la rotondità
della sfera. Più non sarò
la punta che Ti fa sanguinare.
Non chiedermi della Tua legge.
Una pena sola ora per la pianta
divelta, per la pietra lavata
dal fiume e per me stesso.
Attendo che l’uragano abbia fine,
come la quercia
che l’ultima radice si franga.
Mandami, Signore, la morte,
o Amore, non chiedere più nulla.
[3]
D’allora la terra è senza colore,
le fontane non danno più acqua.
E chi ha bevuto sente più sete;
e ogni ombra ha segnato l’avvento
di nuove arsure, e ogni giorno
è finito in un nuovo distacco.
E ogni sera io mangiavo alla mensa
della grande rinuncia. Ed ora
passo come un’immagine,
stendardo sopra le macerie;
una città immensa e deserta,
affamata, uno ad uno
si è divorata tutti i miei giorni.
[4]
Gloria patri
Amore, che mi formasti
a immagine dell’Iddio che non ha volto,
Amore che sì teneramente
mi ricomponesti dopo la rovina,
Amore, ecco, mi arrendo:
sarò il tuo splendore eterno.
Amore, che mi hai eletto fin dal giorno
che le tue mani plasmavano il corpo mio,
Amore, celato nell’umana carne,
ora simile a me interamente sei,
Amore, ecco, mi arrendo:
sarò il tuo possesso eterno.
Amore, che al tuo giogo
anima e sensi, tutto m’hai piegato,
Amore, tu m’involi nel gorgo tuo,
il cuore mio non resiste più,
ecco, mi arrendo, Amore:
mia vita ormai eterna.
Brani
da
David M. Turoldo. Una voce
del Friuli.
Ideazione, riflessioni e scelta dei testi a cura di Nicolino Borgo, Basaldella
2006 [pubblicazione per il centenario della banca di credito cooperativo del
Friuli centrale, 1906-2006]