10 Dicembre 2013

IL VILUPPO DI UN’APERTURA


I mondi in cui opera Davide Turoldo sono Milano e Firenze. La
Milano degli anni 1940-55 e la Firenze degli anni 1955-60.


La Milano della guerra, della resistenza e della
prima fase della ricostruzione civile-morale; in Firenze un autentico
“laboratorio” progettuale di democrazia e di rinnovamento ecclesiale.


Le direttrici di fondo che s’imponevano a livello
contenutistico dopo la dittatura e la guerra e la struttura portante le
dinamiche d’una convivenza civile da progettare impegnavano il cittadino e il
credente.


L’impegno per Nomadelfia incarnava concretamente un
modello di società dove la “fraternità” era legge, definendo così gli autentici
contorni di un “umano” che fa della libertà conquistata una premessa operativa
ed efficace della solidarietà: la libertà a servizio della giustizia. Senza
questa dimensione etica la libertà si corrompe distruggendo l’autentica dignità
dell’uomo e della convivenza.


La realtà ecclesiale non può non essere una
“fraternità” dove la stessa giustizia è ottimizzata nel radicale riscatto della
“carità”, dell’amore; dove la stessa autorità è solo e sempre autorevolezza che
nasce e si corrobora nel servizio: il primo è tale se “schiavo” dell’ultimo.
Ovviamente la Chiesa è a servizio dell’uomo, di ogni uomo senza connotati
limitanti.


In questa fase “liberazione e redenzione” sembrano
integrarsi in una continuità di difficili distinzioni.

 

[1]

 


Parole, inerti macerie,

brandelli d’esistenze

disamorate, panorama

del mio paese

ove neppure il gesto

sacrificale più rompe

la immota somiglianza dei giorni,

né le vesti sante coprono

la nudità degli istinti.

 

E i poeti non hanno più canti

non un messaggio di gioia,

nessuno una speranza.

 

II

E non più alberi sulle nostre

strade disperate. Nessuno

ha pietà almeno

delle pietre, dei giardini,

degli antichi triangoli d’ombra.

Le vie non hanno più linee,

gli archi sono cemento,

le colonne senza capitelli.

 

E dentro le case,

ognuno è solo

con la sua diffidenza.

 

 

[2]

Litania del deportato

 

Non più un verso ampio e disteso

come il primo volo di falco

sopra la pianura dell’infanzia;

non più un canto fermo

nell’estasi delle sere.

Tutto è franato nell’orgia necessaria.

La coscienza m’ha dato un nome,

spogliato come un albero

dopo la tempesta, dall’incanto

di sentirmi libero.

Gli uomini mi hanno appeso il piastrino

che brilla, nella marcia,

sulla giacca grigia.

Siamo creature incatenate

entro un paese di pietre

e di strade senza cielo!

 

Siamo sassi della creazione.

Dio, più non chiedermi d’essere

verticale. Ora diverso è l’urto

dei Tuoi venti; non regge

il mio peso insopportabile d’uomo

alla Tua aggressività inesausta.

Così, abbattuto, eviterò lo schianto

che Tu vai preparandomi:

non vale cercare più il rischio

che non abbiamo scelto.

Abbia, dunque, il Tuo volere

compimento pieno – la Tua

creazione violenta! – e passa

sul nostro sudore di sangue;

e l’attrito non abbia più cifra.

 

Nessuno più rompa la rotondità

della sfera. Più non sarò

la punta che Ti fa sanguinare.

Non chiedermi della Tua legge.

Una pena sola ora per la pianta

divelta, per la pietra lavata

dal fiume e per me stesso.

Attendo che l’uragano abbia fine,

come la quercia

che l’ultima radice si franga.

Mandami, Signore, la morte,

o Amore, non chiedere più nulla.

 

 

[3]

D’allora la terra è senza colore,

le fontane non danno più acqua.

E chi ha bevuto sente più sete;

e ogni ombra ha segnato l’avvento

di nuove arsure, e ogni giorno

è finito in un nuovo distacco.

E ogni sera io mangiavo alla mensa

della grande rinuncia. Ed ora

passo come un’immagine,

stendardo sopra le macerie;

una città immensa e deserta,

affamata, uno ad uno

si è divorata tutti i miei giorni.

 

 

[4]

Gloria patri

 

Amore, che mi formasti

a immagine dell’Iddio che non ha volto,

Amore che sì teneramente

mi ricomponesti dopo la rovina,

Amore, ecco, mi arrendo:

sarò il tuo splendore eterno.

 

Amore, che mi hai eletto fin dal giorno

che le tue mani plasmavano il corpo mio,

Amore, celato nell’umana carne,

ora simile a me interamente sei,

Amore, ecco, mi arrendo:

sarò il tuo possesso eterno.

 

Amore, che al tuo giogo

anima e sensi, tutto m’hai piegato,

Amore, tu m’involi nel gorgo tuo,

il cuore mio non resiste più,

ecco, mi arrendo, Amore:

mia vita ormai eterna.

Brani
da


David M. Turoldo. Una voce
del Friuli
.
Ideazione, riflessioni e scelta dei testi a cura di Nicolino Borgo, Basaldella
2006 [pubblicazione per il centenario della banca di credito cooperativo del
Friuli centrale, 1906-2006]