COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI
XXXI Domenica Anno A
I vivi e i morti, i santi e i peccatori si tengono per
mano: lo affermiamo in queste due feste. Il senso della Liturgia di oggi è
alzare il capo e di guardare alle cose ultime; cercare quelle cose che durano
per sempre; guardare alla Pasqua di Cristo, e alla mia Pasqua dentro la sua.
Sondare l’eternità. Ci avviamo all’incontro con il mistero della vita e della
morte, ma soprattutto con il mistero della Risurrezione, domandando perdono.
Tu che sei entrato nella nostra vita perché noi
entrassimo nella tua, ti domandiamo comunione, misericordia e perdono. Kyrie eleison
Tu che sei entrato nella morte per essere con noi e
come noi, e l’hai vinta per sempre: noi ti domandiamo vita nuova e
perdono. Kyrie eleison
Tu che sei la risurrezione, sorgente di futuro, libero
orizzonte per chi molto ha amato, ti domandiamo eternità e perdono. Kyrie eleison
Omelia
La Liturgia non ha pianti,
perché non è la morte che essa celebra ma la Risurrezione. La liturgia non ha
lacrime se non asciugate dalla mano di Dio, perché non fissa lo sguardo sulla
vita che finisce, ma sulla vita che non muore. Come fanno i grandi credenti,
come questi versi di p. Turoldo:
ma tu amica,
quando verrai, sarà sempre tardi.
E Lui sa perché
L’amica
cui il poeta si rivolge è la morte. Questi versi sono una bellissima
provocazione: non nascondono un disamore alla vita. La vita va amata, va
vissuta, pienamente, con entusiasmo, come faceva lui, nonostante le sue
difficoltà. Ma dicono: guarda oltre. La realtà è più grande e profonda dei
nostri occhi.
Perché, fratelli e
sorelle, è sempre tardi, per un credente, quando la morte arriva? Noi tutti
vogliamo vivere! E lottiamo per la vita, e se la morte bussa alla nostra casa,
anche se è l’ultima ora, le diremmo: per favore, torna domani. È sempre troppo
presto quando muore una persona amata. Eppure il poeta non è un mistico che
sragiona.
Lui sa perché… Lui sa che il nostro desiderio di vita, i nostri
sogni più belli troveranno piena realizzazione solo nell’eternità. Qui
inutilmente cercano di prendere il volo.
“ ma tu amica”. La morte: amica, non spauracchio, non nemica, non colei che viene a
tagliare i nostri affetti, ma li esalta. Quando viene è sempre tardi. E Lui sa perché. E Lui, nel testo di
Turoldo, è in maiuscolo e si riferisce a Gesù.
Lui sa che è tardi, perché finalmente
amerai come non hai amato mai.
E noi che abbiamo fatto tanta
fatica per imparare ad amare, finalmente ameremo con il cuore stesso di Dio.
La nostra
morte è la parte della vita che dà sull’altrove. Quell’altrove che sconfina in
Dio (Rilke). Questo oltre, questa
ulteriorità siamo chiamati ad amare e a celebrare.
E la tentazione che abbiamo,
anche noi credenti, è d’essere necrofili e partecipanti e cittadini dei
cimiteri. Non è così. Noi non dobbiamo cercare più nella morte, dobbiamo
cercare nella vita.
Neppure un capello del vostro capo andrà perduto (Lc 21,18). La risurrezione non cancella il corpo,
non cancella l’umanità, non cancella gli affetti. Dio non fa morire nulla
dell’uomo e ciò che nel mondo è valore non sarà mai distrutto.
Quelli che risorgono non prendono moglie né
marito (Lc 20,35). Vuol dire che saranno oltre le forme di qui, ma
non oltre l’amore. Oltre l’amore c’è il nulla. Non prenderanno moglie o marito, ma prenderanno e daranno amore
sempre. Perché amare è la pienezza dell’uomo e di Dio.
Che uomo sarebbe uno eternamente
privato di coscienza, di relazioni e affetti? Un fantasma. Ma il Risorto dice: io non sono un fantasma, e così voi che
risorgerete. Ogni amore vero che abbiamo vissuto si aggiungerà, si sommerà
agli altri nostri amori, senza gelosie e senza esclusioni, portando non limiti
o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità e di profondità.
La memoria dei defunti mette
in primo piano una cosa in cui in pratica il cristiano medio non crede più: la vita eterna. Qualcosa che sembra
interessare a pochi. Perché sbagliamo, perché la immaginiamo come durata, anziché
come intensità.
Noi tutti conosciamo il
miracolo della prima volta, la prima volta che hai amato, che tuo figlio ti ha
chiamato mamma, la prima volta che… e la vita danzava. Poi ci si abitua…
L’eternità è non abituarsi, è il miracolo della prima volta che si ripete
sempre. Perché sarà la scoperta di ciò
che occhio non vide mai, ciò che orecchio non udì mai, ciò che mai era entrato
in cuore d’uomo e che Dio ha preparato per quelli che lo amano(1 Cor 2,9).
Ma per credere nella vita
eterna è necessario amare questa vita. Se non la ami non sai che fartene del
dono di ulteriore vita. Se invece ami la vita, se la ami con libero e forte
cuore, allora incominci a desiderarne l’eternità. Allora, ecco: io capisco, credo,
desidero la vita eterna che è l’eternità di questa vita. Il dono più serio che
Gesù è venuto a offrire, che per oltre cento volte rilancia nei Vangeli: chi crede ha la vita eterna.
Una preghiera per i defunti, forse la più bella della messa, invoca:
ammettili a godere la luce del tuo volto.
I verbi della fede (pregare adorare lodare) cedono ad un verbo umile e
forte, inerme ed umanissimo: godere. La ragione cede alla gioia. La stessa fede
cede al godimento. L’eternità fiorisce nei verbi della gioia, non nell’ansia
del ragionamento. Perché Dio, nella sua più intima essenza, non risponde al
nostro bisogno di spiegazioni, ma al nostro bisogno più profondo, quello di
felicità. Per lo spirito, per gli affetti, per il cuore, per gli occhi, per
tutto il mio essere.
L’esperienza
dell’uomo dice che tutto va dalla vita verso la morte. La fede cristiana
dichiara invece che dalla morte alla vita si svolge l’esistenza dell’uomo. Dal santuario di Dio che è la terra e dove
nessun uomo può restare a vivere, le porte della morte conducono verso
l’esterno. Ma su che cosa si aprono i battenti di questa porta? Non lo sai?
Sulla vita!
E
tuttavia, un po’ di tristezza oggi, perché si è fatto tardi e lui o lei cui ho
voluto tanto bene, non ci sono più, vivono nell’invisibile. Allora mi aiuta un
verso di Twardowski:
affrettiamoci
ad amare,
le
persone se ne vanno così presto.
Non perdiamo tempo, non rimandiamo a
domani, non posticipiamo l’amore, affrettiamoci ad amare, le persone se ne
vanno così presto.
Ho trovato in un Hospice
Vidas, quei luoghi dove si è gomito a gomito con la morte, un biglietto con un
testo di sant’Agostino:
Coloro che amiamo e che abbiamo perduto, non sono più
dove erano, ma sono dovunque noi siamo. Non sono assenti, sono solo invisibili
e fissano i loro occhi pieni di luce nei nostri occhi pieni di lacrime.
E se
qualche volta ho sentito una mano che mi sorreggeva, credo di poter dare un
nome familiare a quella mano, un nome amato. E dai loro occhi di luce ricevo
ogni giorno in dono un richiamo, una domanda:
che cosa porti con te, che meriti di essere
eterno?
che cosa porti con te, che meriti di stare
faccia a faccia con Dio?
Che cosa hai fatto, che meriti di non morire?
Noi
sappiamo che siamo passati da morte a vita perché amiamo i fratelli (1Gv 3,14).
Allora, affrettiamoci ad amare e ci lasceremo la morte alle spalle.
Nel Vangelo il bene più
grande non è una vita lunga, un infinito, indefinito sopravvivere, l’essenziale
non sta nel non morire, ma nel vivere già ora una vita da risorti. Buona e
bella come quella di Gesù, che ci ha insegnato ad avere più paura di una vita
sbagliata che della morte, a compiangere una vita inutile molto più di una vita
che finisce, a temere una vita vuota più che non l’ultima frontiera, che
passeremo aggrappandoci forte al cuore che non ci lascerà cadere.
Ma quando da morte passerò alla vita,
sento già che dovrò darti ragione, Signore,
e come un punto sarà nella memoria
questo mare di giorni.
Allora avrò capito come belli
erano i salmi della
sera;
e quanta rugiada spargevi
con delicate mani, la
notte, nei prati,
non visto.
Mi ricorderò del lichene
che un giorno avevi fatto nascere
sul muro diroccato
del Convento,
e sarà come un albero immenso a coprire le macerie.
Allora riudirò la dolcezza degli squilli mattutini
per cui tanta malinconia sentii
ad ogni incontro con
la luce;
allora saprò la pazienza con cui m’attendevi,
e quanto mi preparavi, con amore, alle nozze.
un emigrare di forma in forma
nel grande corpo dell’universo.
Corpo, spirito che si condensa
all’infinito:
nostro corpo
cattedrale dell’Amore,
e i sensi
divine tastiere…
p.Ermes Ronchi