dal Messaggero Veneto del 21/02/2002
Giunge a conclusione il bel progetto di recupero della pellicola girata 39 anni fa da Pandolfi
Una nuova luce per “Gli ultimi”
Il 4 marzo al Teatrone la versione appena restaurata del film di padre Turoldo
Gli ultimi acquista nuovo smalto: nella serata del 4 marzo sarà presentato, nella versione appena restaurata, al teatro Giovanni da Udine, con la partecipazione di vari ospiti illustri.
Il progetto ha coinvolto Cineteca del Friuli, Cec di Udine, Cinemazero di Pordenone, Cineteca nazionale e Forum di Aquileia, con il sostegno della Fondazione Crup, della Provincia di Udine e della Regione. Materiali inediti sono stati ritrovati negli archivi di Cinecittà, mentre del restauro si è occupato il laboratorio romano Studio Cine, sotto la supervisione di Cristina D’Osualdo, a cui abbiamo chiesto di tratteggiare la storia del recupero del film.
«Conoscevamo la versione distribuita dalla San Paolo – spiega – e avevamo delle copie in 35 millimetri. Alcuni anni fa Sabrina Baracetti aveva fatto uno studio sul film, recuperando una versione della sceneggiatura e vari carteggi. L’anno scorso la Cineteca del Friuli è venuta in possesso di tutto il materiale che era stato girato, con un recupero di 7.000 metri di pellicola; tantissime scene, che nel film non sono state montate, sono state così raccolte e classificate, a cura di Elena Beltrami. Questo materiale testimonia, confrontato con le varie sceneggiature, una lavorazione abbastanza lunga e travagliata prima di arrivare all’edizione finale del film».
Qual è il recupero più interessante?
«A dicembre è stato ritrovato il negativo originale del film, e anche una prima copia, che comprova l’esistenza di una versione iniziale più lunga. Avendo, a quel punto, due versioni diverse, bisognava decidere cosa e come restaurare; per cui è stato fatto un ulteriore lavoro di ricerca sui documenti cartacei, trovando del materiale di censura e un’ulteriore versione della sceneggiatura, più vicina all’edizione finale. Si ricostruisce così la probabile storia della lavorazione: inizialmente il film viene montato nella versione di 2600 metri e mandato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1962, per la selezione nella sezione informativa. Il film non viene accettato e il regista Vito Pandolfi rimette mano al montaggio, tagliando 10 minuti ed aggiungendo una voce off. Alla prima versione veneziana è seguita quindi una ulteriore di 2400 metri».
Qual’è stata la versione del film sottoposta a restauro?
«Abbiamo rispettato la decisione di Pandolfi, restaurando quindi la versione più breve. Le scene tagliate, particolarmente significative, verranno proiettate, insieme con il trailer originario del film, nella serata di presentazione, e saranno in seguito registrate su Dvd».
Ci può anticipare una di queste scene inedite?
«È interessante la scena in cui Checo diventa quasi amico dello spaventapasseri (l’ossessione del bambino; ndr): in una notte ventosa, lo vede circondato dal fuoco, si avvicina a lui e, con un gesto confidenziale, gli aggiusta il bavero ed il cappello. È un momento di contatto fisico che il bambino ha con il suo alter-ego, prima della presa di coscienza di essere rifiutato e paragonato allo spaventapasseri».
Il film avrà anche un utilizzo di tipo didattico?
«Sì, verrà organizzato un ciclo di proiezioni de Gli ultimi nelle scuole che ne faranno richiesta».
Germana Snaidero
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La povertà che non spaventa
Un dialogo sempre difficile con la terra friulana
Della povertà non vogliamo memoria. Povertà è castigo originale, ma soprattutto umiliazione. Nascere nella povertà di un’epoca, di un angolo di qualche terra era (o sarà) ritaglio per le nostre coscienze, spinte oramai al largo della deriva disumana. Saremo intoccati e mondi osservatori umanitari, antropologi, sorveglianti e guardiani di scontri etnici, fotografi di immagini commoventi, editori di nuove estetiche raccapriccianti e oscene.
Le stimmate della povertà non hanno pieghe e piaghe di beatitudine, sono inguardabili. Ma i volti della povertà camminano i marciapiedi, le periferie, gli scali ferroviari, scorrono i murazzi lungo i fiumi, affiancano le frettolose e distratte passeggiate dei nostri quotidiani. La povertà resta e rimane visione e concezione di una condizione immutabile, alterità inevitabile, sempre con valenza manchevole, per differenza.
Ma i volti della povertà non hanno identiche dignità. Più ci tocca la preoccupazione per la molestia, che chiede e pretende senza supplica, che si aggira furtiva lungo i corridoi e i sotterranei urbani. Più ci spaventa l’incuria animalesca di una povertà trasandata, la transumanza di etnie indesiderate, gli ingloriosi esodi, le in-bibliche diaspore, i trasbordi e le scialuppe incarognite, le discariche degli avanzi umani.
Può darsi allora che la vocazione coincida con la rabbia. Rabbia verso quella colpa originale, vuota di dignità, muta di profezia. Povertà stava a umiltà così come dignità si rapportava a rispetto. Ma più non conta neppure il povero, più non conta nessuno. Ci sorge spontanea una domanda: perché è toccato a Turoldo, essere quello che è stato? Noi non siamo poveri, per questo non potremo mai capire, ma sappiamo che le umiliazioni prime non si potranno mai rimuovere. Indagare dopo, a posteriori, è faccenda fin troppo avulsa e abuso contro la dignità. Non abbiamo più rispetto di nessuno. Nemmeno dei morti. Compiace interpretarli, snaturare le loro vite per piegarle con un gusto di ipocrisia fino a farli diventare categoria. le ricognizioni che sfrondano fra i resti di una vita per inchiostrare pagine speculative.
Turoldo, in una delle sue ultime presenze pubbliche proprio nel suo piccolo paese, «quel paese triste degli avi» che ancora sta lì in disparte fra i campi, allorché gli vollero consegnare la sua casa natìa (quelle quattro povere stanzette di sassi), ebbe a ringraziare e con garbo declinare quel dono con parole dimesse: «Vi ringrazio, ma io non ho mai avuto niente». Non potremo mai chiederci il perché di quel delicato gesto. Per osservanza alla sua dedizione religiosa?
Certo, penseremo. Ma a che giova il possedere nell’ultima per Turoldo età del vivere a fronte di una vita intera partecipata nella rinuncia, ma anche inseguita da sfratti, da laceranti abbandoni, da crudeli allontanamenti. «Fatelo girare, che non metta radici». Efficace ordinanza e metafora della crudeltà ecclesiale.
Il Friuli non è riconoscente verso i suoi figli o, se vogliamo, non tutti i figli sono per questa terra. Ora lo vogliono e lo discutono friulano. Lo collegano al suo Friuli per ricondurlo a un territorio e magari finalmente impiantarlo. Ma la sua voce rimbomba. Finirà per stordire la piccola patria. Patria incantata, benestante e pasciuta che mal condivide la lingua e le provenienze umili e contadine.
Forse anche per questo la pellicola de Gli ultimi venne disconosciuta e mal sopportata al suo apparire. Rimossa come lo stacco di un affresco dall’abside di una vecchia chiesa cristiana. Non è questo, forse, il sintomo e l’ancestrale sindrome dei friulani di rimuovere lo spauracchio della loro arcaica miseria? E, al contempo, la perpetua vocazione per l’obbedienza scandita nel laconico «Comandi»? No. Non si è voluto cogliere il canto di quel fanciullo disperatamente solo ai piedi di quel palo- fantoccio simulacro di tutte le miserie, di tutti i soprusi, quel povero Cristo di stracci, l’urlo straziante di quel bimbo innocente solo e abbandonato davanti a quel terribile calvario a implorare: «Non sono uno spaventapasseri. Non sono uno spaventapasseri. Non sono».
Andrea Zuccolo
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Rispose così alle polemiche dopo la proiezione a Udine. «So di andare controcorrente»
«Non faccio demagogia, cerco altri valori»
In un clima di grande attesa, il 31 gennaio 1963 Gli ultimi venne proiettato, in prima nazionale, al cinema Centrale di Udine, per volere di padre David Maria Turoldo, autore del soggetto del film, diretto da Vito Pandolfi.
Sui quotidiani la pellicola raccoglie gli elogi dei critici cinematografici, ma anche gli interventi polemici di alcuni spettatori.
A dare fuoco alle polveri ci pensa un sedicente «friulano», dalle pagine del Messaggero Veneto. La lettera, pubblicata nella rubrica I lettori ci scrivono, contesta a padre David il fatto di dare, ne Gli ultimi un’immagine travisata del Friuli, come di «una terra perennemente autunnale nella natura e negli spiriti», dove la rappresentazione del fatalismo e della rassegnazione contraddice le caratteristiche che la tradizione assegna ai friulani, gente forte e tenace. Insomma, un ritratto falsato e lesivo della terra friulana agli occhi del mondo. Turoldo viene anche accusato di fare un discorso demagogico, di prendere spunto dalla denuncia sociale per assumere una presa di posizione dichiaratamente politica.
Sulle colonne dello stesso Messaggero Veneto,il 5 febbraio 1963 padre David risponde: «So benissimo di essermi messo controcorrente e che l’opera richiede uno sviluppo. Non per nulla il film comincia e finisce con un interrogativo cui un giorno bisognerà rispondere. Al di là di questo, non sono d’accordo per nulla con l’interpretazione data al film. Cosa si voleva? Un documento deamicisiano?
Dei protagonisti latte e miele? Oggi la realtà sta mutando, ma a quale prezzo? Con quale carico di valori perduti? Questa civiltà non mi soddisfa, è tuttora senza soluzione. Io voglio questo progresso e quei valori: perciò ho fatto questo film, in onore di tutta la nostra gente friulana, di quelle generazioni di cui ora godiamo i frutti».
Nel film si raccontano sia il mondo rurale friulano, visto dagli occhi di un pastorello povero, Checo, sia la storia della sua maturazione, che avviene attraverso il superamento sofferto di un’ossessione, un complesso di inferiorità dovuto alla propria condizione sociale. Dice Sabrina Baracetti, esperta cinematografica del Cec di Udine: «Il regista Vito Pandolfi mette al servizio del film la sua esperienza di regista teatrale, nonché la sua notevole cultura cinematografica. Secondo l’estetica del neorealismo, si è avvalso di attori non professionisti, trascinando nell’impresa l’intera popolazione di un paese, Coderno di Sedegliano».
Eppure Gli ultimi avrà una scarsa distribuzione e poca fortuna anche in terra friulana, penalizzato dall’uscita in un momento di ripresa economica in cui non poteva essere recepito positivamente il messaggio di attaccamento alla terra della società contadina degli anni ’30, un periodo caratterizzato invece da una grave recessione.
Denunciata profeticamente già da padre David, nel terzo millennio la società opulenta e consumistica ha già mostrato tutti i suoi guasti. Di fronte al rischio dell’omologazione culturale, diventa ora naturale apprezzare, con occhi diversi, senza complessi d’inferiorità, un’opera cinematografica che racconta di una società sì povera di beni materiali, ma ricca di valori che hanno nutrito le radici culturali della gente friulana.
Ger.S.
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