16 Marzo 2003

La poesia e l’Occidente

del prof. Giorgio Codarini

LA POESIA E L’OCCIDENTE

L’arte e l’ invenzione della Parola

L’epoca che stiamo vivendo,come altre epoche della storia,è angosciata dall’inaspettata irruzione dell’Altro;un Altro rappresentato dallo straniero,dall’extracomunitario,dal mussulmano, dal terrorista etc.Questo è uno dei modi di rappresentare il Pericolo .Questo Altro può trovare delle rappresentazioni” adirittura nella propria famiglia,dove il domestico diventa straniante,estraneo, indomestico e psicoticamente ritenuto un pericoloso ingombro da eliminare.

Di qui i tragici delitti familiari,”passaggi all’atto”molto difusi denomi- nati:matricidio,fratricidio,infanticidio,uxoricidio e suicidio.
Negli ultimi tempi invece sta riaffiorando più che mai una nuva” apocalittica”,che si rifà a modelli vecchi quasi un secolo, che profetizzano il Tramonto dell’occidente.L’occidente è per se stesso la metafora di un tramonto e secondo questa apocalittica,in quanto vecchio e corrotto,dovrebbe essere strangolato dal cappio che esso stesso ha teso o colassare avendo raggiunto il suo limite massimo o ancora precipitare sulle sue stesse rovine, colpito a morte dal Giustiziere, deciso a vendicare l’emarginazione e l’esclusione di interi popoli,dal banco del mercato globale.

Ci sono molte mitologie vecchie e nuove,e quella che oggi è chiamata Tecnica( non è la Techne greca), viene considerata come una mitologia da sempre presente nella storia d’Europa e da parte di molti profeti di sventura viene considerata il cascame di un crimine originario:quello di Prometeo. Perciò si ritiene che questa Ybris,nella fattispecie,furto del fuoco agli dei,abbia creato una frattura incolmabile nell’armonia del mondo, per questo si pronostica per l’occidente un destino di perenne tramonto, dall’antichità greca ai giorni nostri.

Ma il destino della tecnica,nel suo “statuto originario”, è indissolubilmdente legato a quello della Parola. La Parola è essenzialmente Techne, Arte ed è strutturale alla così detta Globalizzazione,(più adatto sarebbe chiamarla Mondializzazione).Non c’è comunicazione nè informazione senza Parola nella sua logica.Giovanni nel prologo al suo vangelo(Gv 1,1)parla del LOGOS,ma in una dimensione temporale, per questo S.Gerolamo guidato dallo Spirito, traduce con VERBUM,la Parola nel tempo che si fa carne,il miracolo dell’accadere nella vita di ciascuno; egli non traduce con Sermon,discorso e non con Dia – logos,il dialogo è dei pagani non dei cristiani,è una sorta di duello senza funzione terza,senza funzione vuota,senza quell’intervallo,nel quale si effetua il sapere.

Nel dialogo il sapere viene ritenuto partecipabile colettivizzabile.Anche in Platone il dialogo si dimostra inconcludente fino a giungere con difficoltà ad un compimento.Il Cristo dei Vangeli non dialoga “dice” nell’atto di parola,nella parola in atto e l’ascolto di questa parola avviene secondo lo Spirito.

Il VERBUM in S.Gerolamo comporta il” parlare”, il “dire”,l’ atto del narrare.Esso è l’instaurazione del MYTOS,origine delle cose, principio di contraddizione,che rilascia effetti di sapere,motto di spirito,silenzio.
La Parola nel tempo è la Parola contingente,dalla quale il parlante è travolto per la di lei libertà. Ma sembra spesso che la libertà insita nella Parola,ovvero la libertà della Parola, diventi scelta,facoltà,padronanza sulla parola,e magari parole in libertà nel diversivo opinionistico televisivo.

Ciò che necessita oggi non sono le tante parole ma la” disposizione all’ascolto”,un ascolto di qualità. Sembra che non ci sia quel “vuoto”che fa tendere l’orecchio,ma una bulimia vagamente intellettuale, ricolma di pregiudizi,sensi e luoghi comuni che conducono al “credere di sapere già” per evitare di mettersi in gioco.Così nelle famiglie non ci si ascolta, non si parla,si suppone di conoscersi e di sapere già prima ciò che verrebbe eventualmente detto.

Quello che oggi passa per trionfo della parola,potrebbe essere anche considerato il suo fallimento.
Ciò che di inquietante è situato nella struttura della Globalizzazione è il toglimento della Differenza a favore delle piccole diversità.Il diverso è di moda non la Differenza che non ha rappresentazioni.Questo conduce ad un’altra mitologia: l’androgino (il maschio e la femmina sono due metà di un intero,una volta tolto di mezzo l’Altro,come terzo elemento;”l’uno” vale “l’altra” senza nessuna specificità).

Il Disagio è un elemento strutturale agli umani,ma spesso viene esorcizzato,in quanto Altro,in quanto rappresentazione del Male.Il Disagio che enuncia la difficoltà del fare e del procedere,in quanto le cose non sono a portata di mano,viene considerato come la Malattia da debellare.

Perciò quella che va profilandosi è una “civiltà anestetica “insensibilizzata,senza dolore nè sofferenza,in una parola senza esperienza.Il tentativo è quello di pararsi,imbottiti di infinite droghe, dall’esperienza.
Il tentativo di anestetizzare il Disagio,comporta come conseguenza,una economia sulla parola,così ciò che poteva funzionare come esca per un racconto, una riflessione, una elaborazione e perchè no, una composizione poetica,si trasforma in una normale e indolore improduttività.La storia di questi ultimi decenni descrive la vicenda della droga buona e di quella cattiva,di quella prescritta e di quella proibita,di quella legale e di quella illegale.Si tratta di una opposizione come tra “bene” e “male”.La sostanza malefica viene chiamata comunemente “droga”,quella benefica “farmaco”.

Già Platone,che amava riflettere su queste cose,trova nel Fàrmacos anche il significato di “capro espiatorio”,ovvero di quell’elemento che escluso, fa circolare le cose, ridando loro la perduta” naturalità”.

Lo psicofarmaco in quanto Rimedio è diventato ormai l’unico e irrimediabile modo di curare non solo la cosidetta”malattiamentale”, ma anche il più leggero sintomo di Depressione.Se alla fine dell’ 800 erano tutti isterici,negli anni ’50 tutti schizofrenici,ora sono tutti depressi.La Depressione è uno dei caratteri nosografici della civiltà della macchine.Anticamente si chiamava Malinconia,umor nero,uno dei quattro umori della medicina ipocratea, che definiva la salute come un equilibrio di umori.Nel mondo greco, ma anche nel

Rinascimento,la malinconia non abitava farmacie, ambulatori medici,ospedali o case di cura,ma abitava il genio.Il melanconico era considerato da Platone un genio.Socrate era un malinconico.Aristotele nel” problema 30″,parla di malinconia e mania come doti naturali del genio che non ha bisogno di assumere alcuna sostanza inebbriante per essere creativo.Le rappresentazioni della Malinconia dall’antichità fino al Rinascimento,con Diirer per esempio,tengono conto di alcuni particolari,uno tra questi è il capo reclinato di solito a sinistra postura questa saturnina,presente anche in molti pazienti che affollano attualmente gli ospedali pschiatrici.

Giovanni Pascoli nell’Aquilone descrive così un suo compagno di scuola:”..e te si,che abbandoni sull’òmero il pallor muto del viso”.Dante chiama òmero la spalla ma esso ha anche altri significati:simile(òmos),arto o arma dalla radice” ar “e con “ararisco”: adatto, accomodo,connetto.Non sappiamo chi è Omèro,probabilmente ce n’è più di uno,ma “Si nomen est omen, è bello pensarlo non solo per una semplice omofonia,col capo reclinato sull’òmero,al suono della cetra cantare le gesta di dei ed eroi.Sarebbe un modo nobile questo di elaborare il lutto per ogni malinconia,al fine farne dei suoi fantasni una produzione poetica;questo attraverso una “droga”in-sostanziale,nè da prescriversi nè da proibirsi,ma una”droga come “logica”,grazie alla quale il “fare”diventa necessario impossibile da eludere;leggere, scrivere,parlare etc.diventano più necessari dell’aria per respirare.

S.Freud parlando del Poeta e della fantasia dice che l’uomo felice non fantastica,solo l’insoddisfatto lo fa.Sono desideri insoddisfatti le forze motrici delle fantasie,e ogni singola fantasia,è un appagamento di desiderio,una correzione della realtà che ci lascia insodisfatti.La comunicazione poetica non è per tutti ma per una specie di uomini,ai quali non un dio,ma una dea severa – Necessità- la impone.
Ma che cosa è per Omero la poesia?
Non mi sembra che Egli ne dia mai una definizione,ma dà avvio in questo modo ai suoi poemi:

“ME’NIN ‘AEIDE THEA”, Monti traduce:”Cantami l’ira
o diva”(incipit dell’Iliade),e ancora:”‘ANDRAMOI”ENNEPE,MUSA”,
I.Pindemonte traduce:Musa,quell’uom…dimmi”(incipit dell’ Odissea).Il poema viene narrato o raccontato dalla Dea o dalla Musa.

La” creazione poetica” è un dono divino,non propriamente una facoltà umana troppo umana; essa non possiede una padronanza sulla parola,per questo il poeta ha il compito di ascoltare il canto della poesia da labbra divine.E’ per ciò stesso” l’arte dell’ascolto” ,ma anche un esperienza originaria di parola come si dice in Gn1,1 inno di origine sacerdotale (VII s.aC)
“BERESHIT RABA’ ELOIM”;con queste tre parole prende avvio la Bibbia,nel testo masoretico:In principio Dio creò…

Bara’: è l’atto della creazione quella di un artista.Esso richiama la distinzione di una cosa dall’altra,arte della divisione,del dare forma togliendo;togliendo per giungere all’essenziale.Questo inno è poesia che parla di poesia,intesa come creazione artistica,creazione attraverso la parola.Non a caso i LXX ad Alessandria (II a.C.) tradussero così:”EN ARCHE’ EPOIESEN O’ THEOS”.

BARA’ è volto in POIEO,in POIESIS,in POESIA.Un modo questo di formare le cose ad arte,di comporre, di scrivere.Per i traduttori greci la creazione è artistica,e nella fattispecie poetica.Dio è il primo poeta.Qui la parola nella sua originarietà è poetica perchè forma le cose e le fa esistere.

Holderlin nella lirica “Brot und Wein”( pane e vino) dice:”Weiss ich nicht,und wozu Dichter in durftiger Zeit”( Io non so per che cosa i poeti in tempi di povertà,di mancanza)E’ proprio la mancanza che ci spinge alla poesia.Il fatto che ci sia mancanza,comporta la presenza di Desiderio,(de sidera = dalle stelle).Il poeta ritiene che ci sia una mancanza strutturale che non è quella del pane e del vino secondo il luogo comune;il pane ed il vino del poeta sono “transustanziali”, in quanto non è dalla “sostanza” che dipende il poeta ma è la poesia stessa il suo pane e il suo vino.

Se come dice Freud si diventa poeti per necessità,allora è solo da essa che si dipende,ovvero nella totale indipendenza.
R.M.Rilke risponde così ad un giovane poeta che gli chiede una valutazione critica sulla sua opera:”Nulla può toccare tanto poco un’opera d’arte quanto un discorso critico…gli avvenimenti sono indicibili e più indicibili sono le opere d’arte…c’è una sola via( che ti può aiutare e cosigliare),non guardare verso l’esterno ma penetra in te stesso,ricerca la ragione che ti chiama a scrivere;esamina,se essa estende le sue radici nel profondo del tuo cuore,confessati se saresti costretto a morire,qualora vi negassero di scrivere.Questo anzitutto domandati nell’ora più silenziosa della tua vita: devo io scrivere?Scava dentro di te per una profonda risposta.E se questa dovesse suonare consenso,se ti è concesso di affrontare questa grave domanda con un forte e semplice “debbo”,allora edifica la tua vita secondo questa tua necessità…

Un’opera d’arte è buona se è nata da necessità…basterebbe sentire che si può vivere senza scrivere,per non averne più il diritto”.
Ma ache cosa serve la poesia?- A rimorchiare le ragazze – risponde il professore nel film di Peter Weir:L’attimo fuggente.Infatti la poesia serve a tutto e a niente,è un superfluo e un lusso necessari.

La Poesia è quell’atto originario di parola, illocalizzabile in una supposta origine e come la voce consiste nei suoi effetti nei suoi echi anche se la sappiamo provenire dal luogo inspaziale del Mito,dove ciascuno senza accorgersi viene alla luce.Ciò che si tesse nel Mito è l’ Idioma,ovvero la Lingua nella sua originarietà,la così detta “lingua materna”.Non è possibile nella espressione poetica distinguere dei generi letterari corrispondenti ad altrettanti giudizi di valore quali ad esempio il genere vernacolare così a lungo vituperato e disprezzato. Anche i dialetti o le lingue minoritarie hanno una loro dignità artistica e questo mi sembra che sia ormai acquisito.

A proposito della posia friulana,nella sua storia plurisecolare(di sette secoli),ha superato i pregiudizi di Dante,che nel “De vulgari eloquentia”afferma testualmente:”..Aquilegienses et Ystrianos cribremus,qui Ces fas-tu crudeliter accentuando eructant.Cumque hiis montanianas omnes et rusticanas loquelas eicimus,que sempermediastinis civibus accentus enormitate dissonare videtur,.”.
( Scartiamo poi la gente di Aquileia e dell’Istria,che dice,pronunciando crudamente le parole:Ces fas-tu.
E con loro eliminiamo anche ogni parlata montana e campagnola, tali parlate hanno infatti un modo di accentare abnorme e appaiono sempre discordanti dalla lingua degli abitanti del centro della città).

Giorgio Codarini