13 Ottobre 2016

NON SARÓ MAI FELICE, SE NON IMPARO A DIRE GRAZIE

 

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – “Anno C”

2 Re 5, 14-17 – 2 Tm 2, 8-13 –Lc 17, 11-19

Uno solo dei dieci lebbrosi guariti torna indietro per ringraziare, meravigliando il Signore e consolandolo. Da lui impariamo anche noi a ripetere questa piccola grande parola: grazie.

Se non impariamo a ringraziare non saremo mai felici.

 

 

Omelia

Dieci uomini che la sofferenza ha unito: non c’è più giudeo o samaritano tra loro. “Gli uomini li unisce il dolore – scrive Shakespeare – li disperde la felicità”. Diec

i uomini che, come un sol’uomo, a una sola voce dicono un’unica parola: “Abbi pietà”. E’ la prima delle preghiere, quella che riempie i Vangeli, la più diffusa, la più umana, dolore e speranza intrecciati insieme. È arrivata fino a noi, fino alle nostre Liturgie: Kyrie eleison.

La ripetiamo, ma l’abbiamo impoverita, immiserita a perdono dei peccati. Invece è preghiera eterna e possente come il pianto e come il sole, come il respiro e come la luce: abbi pietà della nostra pelle amara, di questa solitudine senza carezze.

Appena li vide Gesù disse: “Andate dai sacerdoti”. Andate, come se foste già guariti, anche se ancora non lo vedete. Andate, perché il futuro entra in noi con il primo passo, come un seme, come una profezia. E vanno i dieci lebbrosi, partono ancora malati e credono alla Parola prima ancora che alla sua realizzazione. È la fede dei profeti: amano la parola di Dio più ancora della sua realizzazione. Fede del cammino, che è salute del corpo e guarigione dell’anima.

“E mentre andavano furono guariti”. Il Vangelo è pieno di guariti, sono come il corteo gioioso che accompagna l’annuncio di Gesù. Che non è la guarigione dalle malattie, ma il Regno di Dio: Dio è qui, è con noi, coinvolto nelle piaghe dei dieci lebbrosi e nello stupore dell’unico che ritorna cantando.

La guarigione ha fatto riemergere le differenze. Forse la felicità è più egoistica del dolore. Forse noi siamo pensanti perché dolenti, generosi perché feriti.

Nove lebbrosi guariti non tornano: per loro è sufficiente la guarigione, che è cosa bellissima, che fa cantare la vita;

non tornano perché si smarriscono nel torrente della loro felicità, dimentichi di tutto dentro la salute, la famiglia, gli abbracci ritrovati.

E so che Dio prova gioia per la loro gioia, così come prima aveva provato dolore per il loro dolore.

Non tornano, forse, per ubbidienza alla parola di Gesù: vanno sulla strada su cui li ha messi Lui, vanno dai sacerdoti.

Ma Gesù voleva essere disubbidito, alle volte l’ubbidienza formale è un tradimento più profondo. “Alle volte bisogna peccare per essere fedeli” (Bonhoeffer).

Forse sentono la guarigione come un diritto, e la malattia un’ingiustizia: è giusto e normale essere sani. E invece no, essere sano è un miracolo, un dono improbabile, una quotidiana sorpresa, che mi fa quotidianamente dipendente dal cielo.

All’unico che ritorna Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato!” Anche gli altri nove hanno avuto fede in Gesù, si sono messi in strada per un anticipo di fiducia dato alle sue parole. Dove sta la differenza?

Tutti hanno fede! Ma il samaritano ha qualcosa di più. È avvolto da un incalzare di verbi: si vede guarito, torna indietro, grida per la strada, si getta ai piedi di Gesù, li abbraccia e dice grazie con tutto ciò che è!

Non va dai sacerdoti perché ha capito che la salvezza non deriva dall’osservare norme e leggi, ma dal rapporto personale con una persona precisa: Gesù di Nazaret.

La salvezza non consiste neppure nel ringraziare, quasi che il Signore fosse in attesa del nostro grazie, bisognoso di riconoscimenti, di gratificazioni, Lui che invece ama in perdita, senza riscontri, a prescindere.

Il lebbroso di Samaria è salvo perché va alla sorgente, perché trova la fonte e vi si immerge come in un abbraccio.

I nove guariti che non tornano affermano che, in fondo, basta la salute, e quando c’è la salute c’è tutto, assicura il proverbio.

E invece no, la salute non basta, abbiamo bisogno di felicità.

La felicità è una salute profonda del cuore, una armonia del corpo e dell’anima, la sensazione di pace di chi sa di essere sulla strada giusta, non viene dalle cose ma dalle relazioni.

E il decimo lebbroso salvato mostra proprio questo: quale benessere viene dallo stupore e dalla capacità di benedire.

Non saremo mai felici se non impariamo a benedire: la vita, il sole, gli altri, Dio. La felicità ha a che fare con lo stupore, sempre. E poi con il dono, sempre. E quindi con il grazie, detto gridato cantato a qualcuno. Perché non può mai essere solitaria.

Ma neanche la felicità basta.

Ho bisogno di salvezza, che è più della salute, più della felicità; è raggiungere il cuore profondo della vita, unità di ogni mia parte, attingere alla sorgente, unificare i frammenti, raggiungere non i doni, ma il Donatore, entrare nel suo oceano di fuoco e di pace.

I nove guariti trovano norme e riti da seguire; l’unico salvato trova lo stupore di un Dio che ha i piedi nel fango delle nostre strade, e gli occhi sulle nostre piaghe.

Nessuno si è trovato che tornasse a rendere gloria a Dio?” Ebbene “gloria di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo).

E chi è più vivente di questo piccolo uomo di Samaria?

Il doppiamente escluso che si ritrova guarito, che torna gridando di gioia, danzando nella polvere della strada, libero come il vento?

Chi più dell’ultimo, ritornato uomo? dello straniero diventato figlio?

Il decimo lebbroso, guarito e salvato, ci insegna a ringraziare, ma non come una nuova legge, bensì come necessità del cuore: cerchiamo almeno di salvare la grande parola “grazie”. Salvarne il senso sacro: dopo le Letture abbiamo detto “Rendiamo grazie a Dio”. Allora leggiamo anche le nostre vite come fossero letture sante, proclamiamo ogni giornata come fosse parola di Dio.

Celebriamo la nostra Messa sul mondo, tutti, dicendo grazie per chi ci ama, per chi ci ha aiutato, per chi ho avuto il dono di aiutare. Per la luce, grazie; per il piacere di vivere, grazie; per chi mi ha dato tanto, per chi mi ha dato poco, grazie; ad ogni creatura e a Dio, per questa vita, per questa danza fatta insieme, grazie.

Tra un po’ usciremo anche noi da qui, forse salvati, forse guariti, non so.

Ma certamente io voglio uscire da questa eucaristia aggrappato, come un samaritano dalla pelle di primavera, a un ‘grazie’, troppe volte taciuto, troppe volte perduto.

Aggrappato, come un uomo cento volte guarito, alla manciata di polvere fragile che è la mia carne e ogni mia giornata.

Nient’altro che polvere, è vero, ma in cui respira il respiro stesso di Dio. Ti dico grazie per me, piccolo miracolo di fango e di fiato divino.

 

 

Preghiera

Vengo al tuo altare, vengo come il lebbroso di Siria,

ho portato ceste di terra e di dolore,

memoria di questo pianeta così bello e così brutale.

Sono memoria anche della mia casa,

dei miei problemi, della mia salute

e tu li conosci tutti.

Ma vengo anche come il lebbroso di Samaria

non per dovere ma per seguire il cuore,

cuore libero e pieno di canti,

cuore ritornato bambino

e ti prego: fammi vivo, Signore,

e la tua vita sia nella mia vita;

fammi vivo perché tua gloria è l’uomo vivente,

fammi vivo della tua vita

e sarò non solo guarito ma salvato

piccolo miracolo di polvere del suolo e di fiato divino.

 

 p. Ermes Ronchi