Mi è sempre piaciuto il brano biblico: Poiché non gli inferi ti lodano, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. Il vivente, il vivente ti rende grazie come io oggi faccio. Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà. (Isaia 38-18,19 ) Esso contiene una profonda teologia esistenziale.
Il brano di Isaia 38:18-19 nasce nel contesto della preghiera di Ezechia, re di Giuda, il quale, malato e prossimo alla morte, implora Dio e riceve una guarigione miracolosa come segno della Sua misericordia. Le parole di questo testo ci offrono una prospettiva profondamente esistenziale sulla condizione umana, sul senso della vita e sulla relazione con Dio.
1. La precarietà dell’esistenza e la lode a Dio
Il passaggio sottolinea un’idea centrale nella teologia biblica: la vita è il tempo della lode, il momento in cui l’uomo può riconoscere Dio e testimoniarne la fedeltà. La morte, invece, viene presentata come una realtà misteriosa e silenziosa: negli inferi non si innalza il canto, nella fossa non si sperimenta la fedeltà divina.
Questa visione richiama una concezione dell’Aldilà tipica dell’Antico Testamento: lo Sheol (gli inferi) è un luogo di ombra, di silenzio, dove non si può vivere una relazione attiva con Dio. Solo chi è vivente può proclamare la lode divina, sperimentando nel presente la Sua fedeltà. Qui si coglie una tensione esistenziale profonda: la vita non è solo un dato biologico, ma un’opportunità per riconoscere Dio e testimoniarne l’amore.
2. Il senso della speranza nella fedeltà di Dio
Ezechia contrappone la condizione della morte all’esperienza del “vivente”. Chi è in vita ha la possibilità di rendere grazie, di testimoniare la grandezza di Dio. Il re si inserisce in questa dinamica dicendo:
“Il vivente, il vivente ti rende grazie come io oggi faccio.”
Qui si afferma la teologia dell’oggi, tipica della spiritualità ebraica e cristiana: il tempo della vita è il tempo della risposta all’amore di Dio. Questa affermazione acquista una forza ancora maggiore alla luce della rivelazione cristiana: con Cristo, la morte non è più un silenzio eterno, ma una trasformazione, un passaggio alla vita piena in Dio.
3. La trasmissione della fede: un’eredità viva
L’ultima parte del versetto rivela un altro aspetto importante della riflessione teologica:
“Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà.”
La fede non è solo un’esperienza individuale, ma una testimonianza che deve essere tramandata. L’uomo, consapevole della propria fragilità e della brevità della vita, trova la sua realizzazione non solo nel proprio rapporto con Dio, ma nel comunicarlo alle generazioni future. La memoria della fedeltà di Dio diventa eredità spirituale.
4. Una visione esistenziale della teologia biblica
Questo brano ci interroga profondamente: che cosa significa vivere? Per Isaia e per Ezechia, vivere significa lodare Dio, riconoscerne la fedeltà e trasmetterla agli altri. La morte, vista qui come un luogo di silenzio, non è solo la fine biologica, ma il rischio di un’esistenza spenta, priva di lode, senza gratitudine.
Questa riflessione tocca il cuore dell’esperienza umana: la vera vita è quella che sa riconoscere il dono di Dio nel presente e che, proprio per questo, si apre alla speranza, alla gratitudine e alla trasmissione della fede.
Conclusione: il superamento del silenzio della morte
Nel Nuovo Testamento, la prospettiva cambia radicalmente: con la resurrezione di Cristo, la morte non è più un luogo di assenza di Dio, ma diventa un passaggio alla piena comunione con Lui. La fede cristiana ci invita a superare la paura della morte con la certezza della vita eterna. Tuttavia, il messaggio di Isaia 38:18-19 resta attuale: la vita è il momento della gratitudine, della testimonianza e della lode. Non sprechiamo il nostro tempo, ma viviamolo nella consapevolezza della fedeltà di Dio.