VII DOMENICA Matteo 5,38-48
p.Ermes Ronchi
Una serie di situazioni molto concrete: schiaffo, tunica, miglio. E soluzioni in sintonia: l’altra guancia, il mantello, due miglia. La semplicità del vangelo! “Gesù parla della vita con le parole proprie della vita” (Christian Bobin). Niente che un bambino non possa capire, nessuna teoria astratta e complicata, ma la proposta di gesti quotidiani, la santità di ogni giorno, che sa di abiti, di strade, di gesti, di polvere. E di rischio.
E poi apre feritoie sull’infinito: “siate perfetti come il Padre”, “siate figli del Padre che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni.
Fare ciò che Dio fa, essere come il Padre, qui è tutta l’etica biblica. E che cosa fa il Padre? Fa sorgere il sole. Mi piace questo Dio solare, luminoso, splendente di vita, il Dio che presiede alla nascita di ogni nostro mattino. Il sole, come Dio, non si merita, si accoglie. E Dio, come il sole, si trasforma in un mistero gaudioso, da godere prima che da capire.
Fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni. Addirittura Gesù inizia dai cattivi, forse perché i loro occhi sono più in debito di luce, più in ansia.
Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra. Cristo degli uomini liberi, padroni delle proprie scelte anche davanti al male, capaci di disinnescare la spirale della vendetta e di inventarsi qualcosa, un gesto, una parola, che faccia saltare i piani e che disarmi. Così semplice il suo modo di amare e così rischioso.
E tuttavia il cristianesimo non è una religione di battuti e sottomessi, di umiliati che non reagiscono. Come non lo era Gesù che, colpito, reagisce chiedendo ragione dello schiaffo (Gv 18,22). E lo vediamo indignarsi, e quante volte, per un’ingiustizia, per un bambino scacciato, per il tempio fatto mercato, per il cuore di pietra dei pii e dei devoti. E collocarsi dentro la tradizione profetica dell’ira sacra.
Non passività, non sottomissione debole, quello che Gesù propone è una presa di posizione coraggiosa: “tu porgi”, fai tu il primo passo, cercando spiegazioni, disarmando la vendetta, ricominciando, rammendando tenacemente il tessuto continuamente lacerato dalla violenza.
Credendo all’incredibile: amate i vostri nemici. Gesù intende eliminare il concetto stesso di nemico. ‘Amatevi, altrimenti vi distruggerete. E’ tutto qui il vangelo’ (Turoldo). Violenza produce violenza, in una catena infinita. Io scelgo di spezzarla. Di non replicare su altri ciò che ho subito, di non far proliferare il male. Ed è così che inizio a liberare me nella storia.
Allora siate perfetti come il Padre…non ‘quanto’, una misura impossibile che ci schiaccerebbe; ma ‘come’ il Padre, con il suo stile fatto di tenerezza, di combattiva tenerezza.
Paradosso che spiazza, che dà da pensare, e forse è disarmante. Per prima cosa non rispondere con altri schiaffi, esci dalla spirale della violenza.
Lo vediamo dal comportamento di Gesù che è l’unica interpretazione esatta delle sue parole. Quando fu colpito reagì chiedendo ragione dello schiaffo: perché mi colpisci?
Ma io vi dico: amate i vostri nemici.
Siate perfetti come il Padre… ultima parola del vangelo oggi.
Ma nessuno potrà mai esserlo, è come se Gesù ci domandasse l’impossibile. Ma leggiamo bene. Gesù non dice “perfetti quanto Dio” che ci schiaccerebbe, bensì “come il Padre”, con quel suo stile, che Gesù è venuto a raccontare, la combattiva tenerezza.
Porgi l’altra guancia, che vuol dire: sii disarmato, non incutere paura, mostra che non hai nulla da difendere, e l’altro capirà l’assurdo di esserti nemico.
Siate perfetti come il Padre (Mt 5,48), siate santi perché io, il Signore, sono santo (Lev19,2). Santità, perfezione, parole che ci paiono lontane, per gente che fa un’altra vita, dedita alla preghiera e alla contemplazione. E invece quale concretezza nella Bibbia: non coverai nel tuo cuore odio verso tuo fratello, non serberai rancore, amerai il prossimo tuo come te stesso (Lev 19,17-18).
La concretezza della santità: niente di astratto, lontano, separato, ma il quotidiano, santità terrestre che profuma di casa, di pane, di gesti. E di cuore.
Siate perfetti come il Padre. Ma nessuno potrà mai esserlo, è come se Gesù ci domandasse l’impossibile. Ma non dice “quanto Dio” bensì “come Dio”, con quel suo stile unico, che Gesù traduce in queste parole: siate come Lui che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.
Mi piace tanto questo Dio solare, luminoso, positivo, questo suo far sorgere il sole su buoni e cattivi. Così farò anch’io, farò sorgere un po’ di sole, un po’ di speranza, un po’ di luce, a chi ha solo il buio davanti a sé; trametterò il calore della tenerezza, l’energia della solidarietà. Testimone che la giustizia è possibile, che si può credere nel sole anche quando non splende, nell’amore anche quando non si sente.
C’è un augurio che rivolgo ad ogni bambino che battezzo, quando il papà accende la candela al cero pasquale: che tu possa sempre incontrare, nei giorni spenti, chi sappia in te risvegliare l’aurora. Quante volte ho visto sorgere il sole dentro gli occhi di una persona: bastava un ascolto fatto col cuore, un aiuto concreto, un abbraccio vero!
Amate i vostri nemici. Fate sorgere il sole nel loro cielo; che non sorgano freddezza, condanna, rifiuto, paura. Potete farlo anche se sembra impossibile. Voi potete non voi dovete. Perché non si ama per decreto. Io ve ne darò la capacità se lo desiderate, se lo chiedete.
Allora capisco e provo entusiasmo. Io posso (potrò) amare come Dio! E sento che amando realizzo me stesso, che dare agli altri non toglie a me, che nel dono c’è un grande profitto, che rende la mia vita piena, ricca, bella, felice. Dare agli altri non è in contrasto col mio desiderio di felicità, amore del prossimo e amore di sé non stanno su due binari che non si incontrano mai, ma coincidono. Dio regala gioia a chi produce amore.
Cosa significano allora gli imperativi: amate, pregate, porgete, prestate. Sono porte spalancate verso delle possibilità, sono la trasmissione da Dio all’uomo di una forza divina, quella che guida il sole e la pioggia sui campi di tutti, di chi è buono e di chi no, la forza solare di chi fa come fa il Padre, che ama per primo, ama in perdita, ama senza aspettarsi contraccambio alcuno.
Lui parla solo della vita
Con parole a lei proprie:
coglie dei pezzi di terra
li raduna nella sua parola e il cielo appare,
un cielo con alberi che volano
il sole che sorge
agnelli che danzano e pesci che ardono
un cielo impraticabile
popolato di prostitute, di folli di festaioli
di bambini che scoppiano in risate
e di donne che non tornano più a casa:
tutto un mondo dimenticato dal mondo
e festeggiato là, subito, adesso,
sulla terra come in cielo
Christian Bobin, L’uomo che cammina, p.15
«Avete inteso che fu detto: “Occhio
Un altro dei vangeli impossibili.
Padre Turoldo diceva: è un Vangelo da Dio, e non da uomini. Porta la logica del Padre per trasformare la logica del mondo.
Avete inteso che fu detto…ma io vi dico. Per quattro volte Gesù ripete questa espressione, come un prendere chiaramente le distanze dalla legge.
E anziché dire, come sarebbe stato normale, ai padri, dice agli antichi, per Gesù è qualcosa di vecchio, obsoleto, sorpassato.
Avete inteso che fu detto: occhio per occhio (ed era già un progresso enorme rispetto al grido selvaggio di Lamec, figlio di Caino: ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido”. Gen 4,23…)
È scritto: Amerai il prossimo e odierai il nemico… Tutto il vangelo è qui: amatevi altrimenti vi distruggerete. Altrimenti la vittoria sarà sempre del più violento, del più armato, del più crudele. L’amore, oppure la guerra.
Amore che nel vangelo non è un sentimento o un’emozione, ma è fare. Gesù lo dice sotto l’immagine del sole e della pioggia. Dai un po’ di sole, un po’ d’acqua, come il Padre…
Gesù usa tutta una serie di imperativi che vanno capiti bene. Perché non si può amare per decreto, per imposizione. Devo sentire che amando realizzo me stesso, che dare agli altri non è in contrasto col mio desiderio di felicità, che amore del prossimo e amore di sé, non stanno su due binari che non si incontreranno mai, ma coincidono sulla via indicata da Gesù per un benessere condiviso.
La frase centrale del vangelo oggi, quella da cui scaturisce? Eccola: perché siate
Il maestro ci accompagna oltre gli steccati dell’etica, ci fa abbandonare passa dalla dottrina del merito, per accogliere quella del dono: Dio non si merita, si accoglie. Lui non ama le sue creature per i loro meriti, ma per i loro bisogni.
mostrare, e che qui traduce in un modo così diretto che lo capiscono anche i bambini: siate come il Padre che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni.
Io sono figlio di Dio, assomiglio a Dio, sono perfetto, cioè completo, compiuto, realizzo la mia vita quando accendo anche solo una piccola lampada, porto un raggio di fiducia, la speranza per un primo passo, il coraggio per la prima notte. Assomiglio a Dio quando sono Testimone della luce; della bellezza e della tenerezza che ci salveranno, loro sole.
Testimone che la giustizia è possibile, che la fiducia è meglio dell’infedeltà e del sospetto; che io credo nel sole anche quando non splende.
Quante volte ho visto sorgere il sole dentro gli occhi di una persona: bastava un ascolto fatto col cuore, un aiuto concreto, un abbraccio vero!
E se non posso essere il sole, sarò almeno una piccola stella, piccola ma che guarda le cose dall’orizzonte di Dio.
Allora capisco e allora mi entusiasmo. Io posso (io potrò) amare come Dio! Ci sarà dato un giorno il cuore stesso di Dio.
Tutta la Bibbia ripete la sua canzone, dall’inizio alla fine: Dio ci ama, Dio è amore, Dio ha un cuore.
Questo cuore di Dio è il cuore al quale dobbiamo cercare di conformarci, ed è il cuore che avremo un giorno.
Perché ogni volta che noi chiediamo al Signore: “Donaci un cuore nuovo” fa di me un uomo nuovo, noi stiamo invocando di poter avere un giorno il cuore di Dio, e gli stessi sentimenti del cuore di Dio.
E’ straordinario, verrà il giorno in cui il nostro cuore
che ha fatto tanta fatica a imparare ad amare,
sarà il cuore di Dio
e allora saremo capaci di un amore che rimane in eterno,
che sarà la nostra anima, per sempre,
e che sarà l’anima del mondo.
Preghiera alla comunione
Tu parli solo della vita
Con parole a lei proprie:
cogli dei pezzi di terra
li raduni nella tua parola e il cielo appare,
Torna tu, Signore, a dire parole di pace,
ritorna a parlare alto e solenne:
amatevi, altrimenti vi distruggerete.
Ritorna a parlare mite e delicato
Fa scendere la tua parola che sa di pane e sale,
che sorga come sole, che scende come pioggia feconda sul grano.
Quella parola ancora capace di rubarmi il cuore
così che io possa sperimentare
Il rischio vasto di prenderti in parola
e veder sorgere il sole
dentro gli occhi di qualcuno.
Anche gli angeli sono stati creati con un particolare “libero arbitrio”.
Essendo di natura superiore a quella dell’uomo, sono dotati di maggior intelligenza e capacità di discernimento, per questo le loro scelte sono eterne ed immutabili: la loro responsabilità è proporzionale alla loro natura.
Essendo dotati di uno speciale libero arbitrio, come ho già detto, nel momento in cui sono stati creati avevano la possibilità di scegliere se stare dalla parte di Dio o no.
La Sacra Scrittura parla dell’invidia del diavolo, quindi la Tradizione mette in evidenza che il loro gravissimo peccato è stato l’orgoglio che ha causato l’invidia per Dio stesso.
In pratica hanno invidiato Dio perché consapevoli di essere solo sue creature. Avrebbero voluto essere Dio stesso. (Ciò si evince anche dallo stesso nome dell’Arcangelo che è a capo degli angeli buoni: Michele = chi è come Dio?).
Questo peccato d’orgoglio li ha fatti precipitare nelle tenebre dell’inferno dove odiano Dio e chi lo serve, cioè l’uomo che è destinato alla somiglianza divina nel Regno dei Cieli.
I demoni non possono più amare Dio perché avevano già fatto la loro scelta decisiva nel momento in cui sono stati creati.
Del resto anche l’uomo che muore nel peccato mortale senza pentirsi precipita all’inferno: dall’aldilà non si può più ritornare indietro perché si è fuori dalla nostra dimensione spazio-temporale…
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XXVIII DOMENICA – Anno A
Mt 22, 1-14
di p. Ermes Ronchi
Omelia
Una domanda mi fa soffrire: come mai sento più forte in me l’immagine amara del re che dice: legatelo e gettatelo fuori! Anziché l’allegria contagiosa di un Re che prepara per tutti una festa? Perché questa deformazione, come una slogatura della parabola? Lasciamoci evangelizzare di nuovo.
C’è, nella città, una grande festa di nozze: si sposa il figlio del re, l’erede al trono, eppure nessuno sembra interessato; nessuno almeno delle persone importanti, quelli che possiedono terreni, buoi e botteghe.
È la fotografia del fallimento del re. Che però non si arrende al primo rifiuto, e rilancia l’invito. Come mai di nuovo nessuno risponde e la festa promessa finisce nel sangue e nel fuoco? È la storia di Gesù, di Israele, di Gerusalemme…
Succede che gli invitati, persone serie, presi dai loro affari, dalle liturgie laiche e feroci del lavoro e del guadagno, dalle cose “importanti” da fare, non hanno tempo da perdere per le cose ‘secondarie’: le persone, gli incontri, la gioia, la festa, gli affetti!
Schiavi dei loro idoli (denaro, interesse, guadagno) hanno troppo da fare per riuscire anche a vivere bene. L’idolo della quantità ha chiesto in sacrificio la qualità della vita.
Dice il vangelo: non se ne curarono, mancanza di interesse. Non è forse questo il problema dei problemi: l’indifferenza verso un Dio diventato irrilevante?
Come capire invece se nella mia vita Dio è importante? Ci aiuta il Piccolo Principe: La rosa è importante se tu le dai tempo. Dare un po’ di tempo a Dio. E non per un pedaggio imposto, o per dovere.
Ma perché è l’affare migliore che puoi fare, è l’investimento che ti fa guadagnare vita, un capitale di vita.
Ascoltando questa parabola mi prende una fitta al cuore: sono ancora così pochi i cristiani che sentono Dio come un vino che dà gioia. Sono così pochi quelli per i quali credere è una festa. Per i quali credere è acquisire bellezza del vivere, un capitale di forza e di sorrisi.
Allora disse ai suoi servi: andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.
Neanche Dio può stare solo, per questo non si arrende. Per la terza volta i servi ricevono il compito di uscire, chiesa in uscita, a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, uomini e donne di nessuna importanza, basta che abbiano fame di vita, voglia di festa. Oggi dove manderebbe i suoi servi? A Lampedusa? Alle stazioni ferroviarie delle grandi città?
Se i cuori e le case si chiudono, il Signore, che non è mai a corto di sorprese, apre incontri altrove.
L’ordine del re è illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti, razza, moralità. E l’invito potrebbe sembrare casuale, invece esprime la precisa volontà di raggiungere tutti, che nessuno sia escluso.
È bello questo Dio che quando è rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Lui apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano; e dai molti invitati passa a tutti invitati, dalle persone importanti passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni… Scandalo per il fariseo che è in me.
Un invito alla totalità, senza mezze misure, senza bilancino, senza quote da distribuire…
Per noi che misuriamo tutto, e ci arrendiamo alle prime difficoltà: Dio non accetta che ci arrendiamo, con Dio c’è sempre un ‘dopo’.
Per noi che distinguiamo e separiamo i poveri: tu sei buono e ti meriti il mio obolo; tu sei cattivo, a te non do niente. Ma la fame non è buona o cattiva. È fame e basta. E chi è uomo, e basta, abbeverato alle sorgenti infinite di Dio, merita sempre, buono o cattivo, di bere anche al mio piccolo ruscello. Dio non guarda i meriti, ma il bisogno. Meriti non tutti ne abbiamo, ma bisogno sì, e sofferenze.
E questo non perché essere buoni o cattivi si equivalga. Guardate questa nostra chiesa: non è piena di santi, ma di uomini e di donne che dentro di sé sono buoni e cattivi, al tempo stesso; con slanci talvolta e spesso con durezze di cuore. Ma il vangelo mi ha insegnato che Lui non ama gli uomini perfetti, non preferisce le creature immacolate, ma vuole uomini e donne incamminati, magari col fiatone, magari claudicanti, ma in cammino.
È così è il paradiso. Pieno di santi? No, pieno di peccatori perdonati, di gente come noi. Di vite claudicanti.
Il re invita tutti, non perché gli invitati facciano qualcosa per lui, ma perché gli lascino fare delle cose per loro, lo lascino essere Dio!
Il re entrò nella sala e scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: amico, come mai sei entrato senza l’abito nuziale?
Il re nella sala. Noi pensiamo Dio lontano, separato, assiso sul suo trono di giudice, e invece è dentro la sala della vita, in questa sala del mondo, è qui con noi, come uno cui sta a cuore la gioia degli uomini, e se ne prende cura; è qui seduto alla mia destra, nei giorni delle danze e in quelli delle lacrime, insediato al centro dell’esistenza, nel cuore della vita, non ai margini di essa.
E si accorge che un invitato non indossa l’abito delle nozze. Tutti si sono cambiati d’abito, lui no, tutti anche i più poveri, non so come, l’hanno trovato, lui no; lui è come se fosse rimasto ancora fuori dalla sala. È entrato, ma come uno che non crede che ci sia una festa. Come chi non è interessato. E non gli va neppure collaborare con la sua presenza ad accrescere almeno un pochino la gioia della sala. Un contestatore.
L’abito non è il simbolo di un comportamento senza macchia, perché la sala è piena di brave persone e di cattivi soggetti mescolati. Quell’abito è la metafora della fede. L’invitato si è sbagliato su Dio, lo pensava un Dio incapace di far festa.
E invece si fa festa in cielo, ricordiamolo il vangelo, si fa festa per un peccatore pentito, per un figlio che torna, per una pecora perduta e ritrovata, per ogni mendicante d’amore che trova e beve un sorso d’amore. Si è sbagliato sulla fede, non ha capito che credere è una festa.
Vorrei parlargli, vorrei dirgli ciò che il mare dice alle montagne, ciò che il vento dice alle rocce: che una bontà immensa penetra l’universo, che Dio non è quello che lui crede, che è un vino di festa, un banchetto di condivisione in cui ciascuno dà e riceve. Un flauto che suona da oltre. E ci chiama alle sorgenti, non per un dovere, ma per un sempre nuovo stupore.
Credere è una scala di luce, posata sul cuore e che sale verso Dio, un Dio esperto di feste, un Rabbi che ama i banchetti. Un Dio cui piace sconfinare, pascolare nella terra dell’uomo e non nel solito paradiso. Piace anche a lui nutrirsi, con noi, di nutrimenti terrestri, di sentimenti umani. Padre della gioia.
Preghiera alla comunione
Amico, come hai fatto a essere qui?
Oggi, Signore, non voglio restare muto
come l’invitato della parabola.
Ti dirò: non ho l’abito bello perché sono troppo povero,
perché ne ho tessuto solo qualche scampolo.
Donamelo Tu, Signore!
Vestimi di te, vestimi della tua luce,
Tu che hai ascoltato il ladro crocifisso,
la preghiera del pubblicano,
la cananea straniera e audace:
accoglimi di nuovo nella sala del banchetto,
sono soltanto un uomo delle strade,
uno dei crocicchi che i tuoi servi percorrono.
Buono e cattivo al tempo stesso, scovato solo alla fine,
ma adesso accolgo l’invito, faccio la mia parte,
scelgo di indossare te,
indosso i tuoi occhi, i tuoi gesti,
prendo le tue mani, i tuoi piedi,
prendo te come mio desiderio, come mio sogno, come mio progetto.
E Tu, Signore, riaccoglimi nella sala del banchetto
E donami di respirare festa da te,
Tu, mia forza, mio abito, gioia mia! Amen
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