(Testo ispirato da una vide-conferenza su Santa Teresa del B.G. di p. Serafino Tognetti)
L’amore è indefinibile, però possiamo intuire in che cosa consiste la sua purezza. Ci sono diverse gradualità dell’amore. Quello più terreno è legato ad un fine terreno. Ciò significa che si ama perché ci si aspetta qualche forma di gratificazione personale.Chi ha un po’ di auto-consapevolezza si rende conto che raramente amiamo senza attenderci alcuna ricompensa.
Quando pensiamo di amare Dio spesso illudiamo noi stessi perché non lo sappiamo amare davvero con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra mente come Lui comanda. Allora quando amiamo Dio realmente?Innanzittutto quando gli siamo profondamente riconoscenti per l’esistenza nonostante le varie controversie e i dolorosi accadimenti della vita terrena.
Inoltre lo amiamo davvero quando, nonostante l’aridità interiore e i momenti bui in cui non riusciamo a cogliere la sua presenza sensibile, accettiamo gioiosamente la situazione come volontà di Dio, per il nostro progresso spirituale,Lo amiamo anche quando ci affidiamo completamente a Lui, consapevoli della sua Misericordia e del suo infinito amore che Lui ha per ciascuno di noi, nonostante le nostre innumerevoli colpe e fragilità.
Nella nuova dimensione che ci attende dopo la vita terrena, da redenti, noi vedremo Dio faccia a faccia, per cui nulla potrà affliggerci per l’Eternità. Sarà molto più facile amare Dio perché lo vedremo così come Egli è per sempre.In questa vita terrena noi possiamo amarLo nel buio della fede, tra conflitti e situazioni dolorose, credendo nella sua infinita misericordia, amando il prossimo in Lui, chiunque egli sia, con pochissime gratificazioni.
Quale amore è più puro? Quello del Cielo o quello della terra?
Solo Dio lo sa, ecco perché glorifichiamo Dio per ogni gesto d’amore che non attende alcuna ricompensa…
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Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi – pubblicato su Avvenire
XXII Dom. T. O. – Anno C – 2019
Mettersi all’«ultimo posto»: quello di Dio
Vangelo (Luca 14,1.7-14)
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”». (….) Disse poi a colui che l’aveva invitato: (….) «Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Il banchetto è un vero protagonista del Vangelo di Luca. Gesù era un rabbi che amava i banchetti, che li prendeva a immagine felice e collaudo del Regno: a tavola, con farisei o peccatori, amici o pubblicani, ha vissuto e trasmesso alcuni tra i suoi insegnamenti più belli. Gesù, uomo armonioso e realizzato, non separava mai vita reale e vita spirituale, le leggi fondamentali sono sempre le stesse. A noi invece, quello che facciamo in chiesa alla domenica o in una cena con gli amici sembrano mondi che non comunicano, parallele che non si incontrano.
Torniamo allora alla sorgente: per i profeti il culto autentico non è al tempio ma nella vita; per Gesù tutto è sillaba della Parola di Dio: il pane e il fiore del campo, il passero e il bambino, un banchetto festoso e una preghiera nella notte. Sedendo a tavola, con Levi, Zaccheo, Simone il fariseo, i cinquemila sulla riva del lago, i dodici nell’ultima sera, faceva del pane condiviso lo specchio e la frontiera avanzata del suo programma messianico.
Per questo invitare Gesù a pranzo era correre un bel rischio, come hanno imparato a loro spese i farisei. Ogni volta che l’hanno fatto, Gesù gli ha messo sottosopra la cena, mandandoli in crisi, insieme con i loro ospiti. Lo fa anche in questo Vangelo, creando un paradosso e una vertigine. Il paradosso: vai a metterti all’ultimo posto, ma non per umiltà o modestia, non per spirito di sacrificio, ma perché è il posto di Dio, che «comincia sempre dagli ultimi della fila» (don Orione) e non dai cacciatori di poltrone. Il paradosso dell’ultimo posto, quello del Dio “capovolto”, venuto non per essere servito, ma per servire. Il linguaggio dei gesti lo capiscono tutti, bambini e adulti, teologi e illetterati, perché parlano al cuore. E gesti così generano un capovolgimento della nostra scala di valori, del modo di abitare la terra. Creano una vertigine: Quando offri una cena invita poveri, storpi, zoppi, ciechi. Riempiti la casa di quelli che nessuno accoglie, dona generosamente a quelli che non ti possono restituire niente. La vertigine di una tavolata piena di ospiti male in arnese mi parla di un Dio che ama in perdita, ama senza condizioni, senza nulla calcolare, se non una offerta di sole in quelle vite al buio, una fessura che si apre su di un modo più umano di abitare la terra insieme.
E sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Che strano: poveri storpi ciechi zoppi sembrano quattro categorie di persone infelici, che possono solo contagiare tristezza; invece sarai beato, troverai la gioia, la trovi nel volto degli altri, la trovi ogni volta che fai le cose non per interesse, ma per generosità. Sarai beato: perché Dio regala gioia a chi produce amore.
(Letture: Siracide 3,19-21.30.31; Salmo 67; Lettera agli Ebrei 12,18-19.22-24a; Luca 14,1.7-14)
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/mettersiall-ultimoposto-quello-di-dio
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6 luglio 2005
IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA IN AUDIO
Catechesi e omelie di padre Lino Pedron